«Le notti in attesa di noi genitori», la lettera di Cesare: «Ridateci le giuste punizioni»

Sabato 7 Aprile 2018, 11:14
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È questa l’era in cui il Tempo non ha più ragione di scorrere: limite imposto di generazioni ormai passate. Come il tempo, lo Spazio non ha più motivo di esistere: limite superato e non più attuale. Spazio e Tempo non sono temi che ci riguardano, a noi, giovani, esseri galleggianti nel vacuo dell’intangibilità. Siamo immortali.

Perenni connessioni ad una realtà diversa ci portano ad essere insonni, a voler essere insonni, per aggiornarci sul niente assordante che qualche nostro conoscente, come noi, vive, ma ha la capacità di pubblicare in maniera più affascinante. Viaggiamo con poco, in poco; conosciamo le città di cui non assorbiamo nessuna cultura. Con chi ci ha preceduto non abbiamo capisaldi da condividere, non vi sono uguali visioni, non vi possono essere.

La verità è che non abbiamo perso solo la misura di Spazio e di Tempo, abbiamo perso ciò che spazio e tempo cercavano di scadenzare: il Senso. Non il senso della vita, che è tema molto più complesso e mai risolto, ma il senso del quotidiano, delle giornate distratte; il senso del giusto, il senso di Comunità, di appartenenza, il senso del lavoro, del sacrificio, della scoperta, del premio; il senso del chiedersi il senso, il senso del sentirsi amici, il senso dell’essere consapevoli.

Fuggiamo ogni parola che non ci identifica in vincenti, dissacriamo la realtà. Ciò che non capiamo non è importante, ciò che non conosciamo non esiste. La curiosità è morta. Nulla ha più senso.

A vederla con altri occhi ci si accorgerebbe che viviamo una inutile e frenetica corsa veloce, ma non vi può essere concezione di corsa senza spazio, né di veloce senza la nozione di tempo; così resta solo il vortice di agitazione a imprimere le nostre vite, a non farci fermare mai a pensare.

L’avevano detto: era in quel Dino annoiato che nella penna di Moravia si andava a scontrare in un albero; era nelle immagini di un sempre più attuale Arancia Meccanica in cui l’eccesso riscriveva le abitudini per passare i pomeriggi. L’avevano previsto le menti più sensibili e lungimiranti che sarebbe rimasta solo la Noia a farla da padrona su stralci di vita già stanchi; ad imporsi come credo da professare in ogni istante senza chiara consapevolezza. È la noia l’unica fonte amica per distrarci dagli scopi in una vita non capita, per avere la scusa di affogare nell’alcool e rincorrere le droghe.

È un gioco al massacro. Una giostra cattiva da cui vogliamo scendere: le regole ci sono scappate di mano. È stato uno strappo sempre più lacerante, fondato su sterili critiche alle generazioni di prima, sull’aspettativa di altro, ma non abbiamo capito di cosa. Un sistema perverso che vedeva la luce soltanto nella libertà, come a continuare su quel -già discutibile- filone sessantottino. La libertà di pensare, di urlare, di parlare a caso, senza conseguenze, sempre. La libertà di uscire e non tornare, di ignorare i ruoli, le famiglie, le responsabilità. La libertà di comandare i genitori e aizzarli contro professori dichiarati sempre e comunque incompetenti. La libertà di essere saccenti perché sappiamo più di voi, più di loro, più di tutti. La libertà di non interessarci a nulla perché occupati a fare altro. Una libertà che non ci lascia più liberi.

Basta. Ridateci il senso. Ridiamoci un senso.

Ridateci le punizioni, il timore reverenziale, gli impieghi squallidi, i pranzi della domenica, le andate a messa, i permessi negati, le zie anziane, la cena insieme, l’orario per la tavola, la Famiglia, l’orgoglio. Ridateci il sapore di un senso. Riprendetevi il ruolo di capofamiglia e non temeteci più, smettetela di assecondarci e di crederci: noi non siamo quello che mostriamo, non sappiamo quello che diciamo, siamo solo più veloci di voi a cercare le risposte sugli strumenti che voi fingete di saper usare perché volete imitarci convinti che utilizzare la nostra piattaforma sia l’unico modo per incontrarci. Dateci la vostra piattaforma, mostratevi deboli e insegnateci ad esserlo come voi, insegnateci la paura e la capacità di sbagliare, il senso del fallimento, la mortalità come stimolo alla missione dell’essere perbene e non come sfida da confutare.

Ridiamoci il senso della critica.

È già tardi, siamo già oltre, siamo a parlarne perché vi è già una conta delle vittime. C’è un burrone tra noi e voi: tendiamoci la mano, forse se ci sforziamo insieme riusciremo a toccarci, a sfiorarci in una carezza, e saremo in grado, questa volta, di non cadere.

Cesare, giovane, figlio
 
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