Azar Nafisi: «Io e donna Matilde, due donne emancipate dal mestiere di scrivere»

Azar Nafisi: «Io e donna Matilde, due donne emancipate dal mestiere di scrivere»
di Donatella Trotta
Domenica 27 Maggio 2018, 08:00
10 Minuti di Lettura
Nei suoi libri, pubblicati in Italia da Adelphi, Azar Nafisi intreccia ricordi autobiografici e interpretazioni dei grandi classici della letteratura mondiale coniugando passione e compassione, elogio della lettura e potere della scrittura per la costruzione di identità indipendenti e creative: dal best seller mondiale Leggere Lolita a Teheran (2003, tradotto in 32 lingue) al memoir Le cose che non ho detto (2008) fino al suo unico libro per bambini, Bibi e la voce verde (2006, illustrato da Sophie Benini Pietromarchi). Nei suoi articoli (per il «New York Times», «Washington Post», «The New Republic»...) interviene su questioni culturali e sociali con un timbro di grande impegno civile. E con la forza penetrante delle parole (e delle storie narrate) riesce a creare varchi nei totalitarismi di qualunque segno: lasciando spazio a quell'immaginazione eversiva e liberante che, per lei, è un diritto democratico inalienabile e universale, da tutelare come tutti i diritti umani fondamentali. Tanto da averle dedicato di recente un significativo saggio, La repubblica dell'immaginazione (2014), dove mette in guardia contro pericoli ancor più insidiosi perché invisibili - delle oppressioni palesi di tirannie conclamate: la pigrizia e il conformismo intellettuale, la crisi di visione, la dittatura degli stereotipi, la censura dei pregiudizi, l'omologazione dell'indifferenza e la globalizzazione della mentalità utilitaristica e mercenaria.

Anche per queste ragioni Azar Nafisi, classe 1955, autorevole intellettuale di lingua farsi e formazione (pure) angloamericana, scrittrice e docente universitaria della diaspora iraniana con cittadinanza statunitense dal 2008, ha vinto la seconda edizione del Premio letterario Matilde Serao, promosso da «Il Mattino», che domani sera le sarà assegnato nel corso di una serata di gala al San Carlo. «Un riconoscimento intitolato ad una donna che mi ha molto colpito confida la scrittrice appena giunta da New York - perché pur nella diversità, geografica e temporale, la sento vicina per temperamento e approccio alla letteratura: ai suoi tempi, per certi versi peggiori dei nostri per le donne, Serao è stata a suo modo un'attivista per il cambiamento del mondo attraverso storie al femminile che, usando un linguaggio moderno e innovativo, hanno trasformato mentalità e modalità di racconto», aggiunge Nafisi, accompagnata a Napoli dal marito ingegnere Bijan Naderi, conosciuto ai tempi dell'università in Usa quando entrambi rivelano - militavano nella confederazione di studenti iraniani attivisti contro lo Scià Reza Pahlavi, di cui Bijan era uno dei leader. Una bella storia d'amore e di lotta, (con)divisa tra due mondi cruciali per la partita del futuro nell'attuale scacchiere geopolitico mondiale.

Signora Nafisi, lei ha assistito a ripetuti sconvolgimenti politici e sociali generati dalla «rivoluzione» della Repubblica islamica degli ayatollah dopo il rovesciamento della monarchia nel 1978-79, quando tornò in Iran per insegnare, per 18 anni, letteratura inglese all'università di Teheran, dove suo padre è stato sindaco e sua madre prima donna parlamentare. Come vive l'«esilio« volontario in Usa?
«La vita mi ha insegnato presto che il concetto di casa è molto fragile e precario, perché è facilissimo perderla: basti pensare a quanto è accaduto nell'esperienza europea del XX secolo, quando la casa comune diventò luogo di nemici, anziché di amici e fratelli. Un po' come sta avvenendo in Iran. Certo, un esule si sente perennemente in colpa di aver lasciato la sua terra, convive sempre con un dolore e una nostalgia che si porta dentro. Ma le assicuro che l'esilio peggiore è quello di non sentirsi più a casa nella propria casa: come mi è accaduto nell'Iran della Repubblica islamica, che non era e non è più l'Iran che io ho conosciuto e amato. Perché l'Iran non è il regime degli ayatollah, né il suo popolo può essere giudicato da chi lo governa. L'Iran esiste da prima ed esisterà anche dopo questo totalitarismo, proprio come la vostra Italia, la cui civiltà esisteva prima ed esiste, e vive, anche dopo il regime fascista di Mussolini. Ma vorrei aggiungere una cosa sulla mia cittadinanza americana».
 
Prego.
«Un fatto positivo degli Stati Uniti è che chiunque, approdandovi e radicandosi, poteva portare il proprio passato con sé custodendo nel proprio bagaglio il meglio della propria civiltà, in dialogo libero con la terra ospitante: non diventavi solo americano, ma iranamericano, sinoamericano, italoamericano, nel pieno rispetto delle radici originarie e tuttavia con una notevole vivacità culturale, una duttilità e un dinamismo che hanno arricchito la convivenza e le connessioni tra una miriade di differenti comunità, da Little Italy a Chinatown. Ma oggi questa realtà è minacciata, perché Trump la sta scardinando, facendo fare un passo indietro al proverbiale liberalismo americano: si comporta e agisce proprio come un Ayatollah, che ti confisca e depriva della tua storia così non sei tu che scegli, e perdi il potere di essere chi sei, o chi vuoi essere. Del resto il totalitarismo non è certo problema solo iraniano o mediorientale: in fondo nasce nel cuore dell'Europa del Novecento, non c'è quindi da stupirsi che possa attecchire persino nella civilissima New York dove Trump è nato».

E della questione dell'accordo Usa-Iran sul nucleare cosa pensa? Come giudica la posizione di Trump, dal suo osservatorio privilegiato sui due mondi?
«Non sono un politico, ma penso che i governi dovrebbero sempre scegliere vie diplomatiche per la risoluzione di ogni ostilità. A mio avviso, in politica estera gli Stati Uniti difettano di una strategia, ampia e globale. Procedono per tattiche limitate, ignorando il quadro internazionale di insieme. Ad esempio, trovo corretto da parte di Obama aver tentato un dialogo con l'Iran per raggiungere un'intesa sugli armamenti, ma a mio parere ha sbagliato ad affrontare la questione con un punto di vista parziale, mirato soltanto a negoziare sul nucleare ma tacendo sulla grave questione della violazione dei diritti umani nel Paese e ignorando il ruolo distruttivo che l'Iran sta giocando nella regione, dalla Siria (con l'appoggio agli Hezbollah e al regime di Assad) allo Yemen fino all'Iraq, dando ospitalità a molti terroristi e creando sistematicamente caos, con il preciso obiettivo di esportare la rivoluzione islamica che usa la religione non in quanto fede ma come una ideologia imperialista, in modo non dissimile dal comunismo o dal nazifascismo. In questo complesso contesto, Trump non ha né strategia né tantomeno tattica alcuna, perché odiando Obama pensa solo a distruggere tutto ciò che il suo predecessore ha fatto, con gravi rischi di ripercussioni, per estensione dei conflitti, anche sull'annosa e diversa questione arabo-israeliana».

Torniamo alle donne: come valuta il movimento Me Too, che tanto scalpore mediatico internazionale ha suscitato?
«Questione complicata. Sono d'accordo sulla premessa, che vuole rompere il silenzio su stupri e molestie contro le donne. Ci mancherebbe. Però ritengo che sia stata data troppa enfasi alla celebrazione del vittimismo, che perpetua il ruolo delle vittime. La vostra Serao, pur vivendo in tempi difficili, ha sempre rifiutato di chiamarsi o considerarsi vittima. E in Iran, se le donne si tolgono in velo in piazza, vengono percosse e imprigionate per due anni ma non si considerano delle eroine: sono delle vittime, certo, ma la loro repressione smaschera il potere e il loro gesto è molto più potente del potere stesso. Aggiungo che non mi piace la politically correctness che impone alle persone come agire, cosa dire e provare, perché lo trovo molto pericoloso. Le faccio un paio di esempi: negli Stati Uniti stanno iniziando a criticare nientemeno che Shakespeare, accusato di misoginia, antisemitismo, e così distruggono il passato. In Francia hanno addirittura censurato Montaigne, per cui i ragazzi nelle scuole leggono passi depurati, ovvero una menzogna. La battaglia delle donne per la tutela dei propri diritti è molto più ampia della sola questione della violenza sessuale: in tante, anche in Usa, hanno bisogno di lavorare ma senza tutele per la maternità, asili nido per i bambini, trovano difficoltà immense. I movimenti femminili dovrebbero coalizzarsi a largo raggio e fraternizzare su tutte le molteplici problematiche della condizione femminile, se si vuole davvero una partecipazione democratica e paritaria alla vita della società».

In Iran sta in parte accadendo, con una sorta di mobilitazione culturale che ha fatto parlare di «rinascimento» al femminile: lei è in contatto con qualcuna di queste intellettuali, residenti o in diaspora?
«Conosco bene la fumettista Marjane Satrapi, che vive in Francia, la pionieristica giudice Shirin Ebadi e diverse altre di loro, quasi tutte appartenenti alla generazione precedente alla Rivoluzione islamica. E sono comunque figlie di una storia di rivendicazioni femminili che viene da molto lontano, nella scia della leggendaria Shahrahzad. Un esempio di autodeterminazione femminile culminato nel 1837, quando la bellissima poetessa Tahirih, carismatica fondatrice della religione Baha'i, fu la prima a togliersi pubblicamente il velo, anche se pagò per questo con la vita. Ma come dice Nabokov, i governi vanno e vengono, solo le tracce del genio restano. E la passione. Il fatto è che quando gli ayatollah affermano che i loro precetti impositivi, restrittivi e prescrittivi contro le donne sono la nostra cultura, la nostra tradizione, mentono. Esiste un'altra cultura, un'altra civiltà e tradizione che le donne ben conoscono; per questo sono così attive: non pretendono nuovi diritti, rivogliono indietro quelli che già avevano».

Nel suo percorso biografico, i libri sono stati una leva potente di emancipazione, un po' come avvenne per la nostra Matilde Serao: è così?
«Certo. La mia è stata un'educazione sentimentale alle parole e alle immagini. Mia madre, con cui ero spesso in contrasto, ci teneva che completassi i miei studi umanistici. E con mio padre, sin dall'età di tre anni e mezzo - quando iniziò a raccontarmi storie - avevo un rapporto fondato proprio sullo storytelling; anche quando doveva rimproverarmi per qualcosa, e lo faceva in forma narrativa... Pensi che il più grande regalo che io e mio fratello ricevevamo, in premio per una buona condotta, erano libri: quanto di più prezioso potessimo desiderare. Di questo sarò sempre grata alla mia famiglia. Mi ha donato l'amore per il valore della lettura. Prima di diventare scrittrice, sono stata e sono una grande lettrice. E i libri mi hanno salvato la vita: in tutti i peggiori momenti di difficoltà o crisi che ho vissuto, erano lì come amici fedeli, a consolarmi e a mettermi in contatto con il mondo, in qualunque parte del mondo fossi. Sono diventati la mia casa, il luogo del sogno e della libertà. Come è avvenuto ai miei studenti, che dalle storie altrui sono riusciti a raccontare le proprie, come scrivo dell'esperienza clandestina di Leggere Lolita a Teheran».

È questo che intende con il «potere dell'immaginazione»?
«Credo che la gente non presti la dovuta attenzione a quanto pragmatica possa essere l'immaginazione, che definisce chi siamo come esseri umani. Lo hanno capito bene i tiranni, che la temono più del potere militare. L'immaginazione è una forma di democrazia. Sia la letteratura che la scienza sono basate su di essa perché sono fondate sulla curiosità: l'immaginazione è come Alice in Wonderland di Carroll, che insegue il Bianconiglio cercando di trovare il paese delle meraviglie. Non si può vivere senza. E se la scienza è il bisogno di scoperta e conoscenza della natura per sopravvivere, la letteratura è la scoperta e consapevolezza della nostra anima, di ciò che siamo: di qui l'importanza della mitologia e, nelle religioni, della Bibbia, del Corano, della Torah e dei racconti di Buddha. Senza storie, non possiamo dirci e continuare ad essere umani. Nessun sermone, nessuna forma di correttezza politica può sostituire la profonda empatia che ci deriva dall'immaginazione. E nell'attuale crisi di visione, l'empatia è necessaria per capire che anche l'apparentemente diverso e lontano da noi è come noi. Un grande scrittore, in quest'ottica, è come un grande generale: per sconfiggere il nemico devi conoscerlo, devi entrare nella sua pelle, metterti nei suoi panni. Empaticamente».

L'empatia è un valore da recuperare, in tempi di passioni tristi e penosa povertà educativa. Parlerà anche di questo nella sua masterclass agli studenti del Suor Orsola Benincasa, martedì mattina?
«Ai ragazzi vorrei raccontare l'importanza delle discipline umanistiche e della storia che donano un senso profondo alla vita, molto più dell'idolatria del denaro e del facile intrattenimento che rifugge dal pensiero. Vorrei raccontare l'importanza della cultura e di come la politica abbia bisogno della cultura, perché non si può fare, ad esempio, politica estera senza sapere nulla della civiltà di altri Paesi. Vorrei raccontare la storia delle relazioni tra Iran e Italia che è antica come le nostre due civiltà, di cui restano testimonianze nei musei con preziosi artefatti che svelano come certe opere degli antichi persiani siano molto simili a quelle degli antichi greco-romani, tanto che talvolta è difficile distinguerle... Ma tutto questo è cambiato dopo l'avvento dell'Islam».

Il suo personale rapporto con l'Italia, e con Napoli?
«A Napoli passai di corsa nel 2011 una prima volta, ma ora ho l'occasione di scoprire le sue infinite ricchezze. L'Italia la sento vicina, l'ho sognata e immaginata prima ancora di venirci di persona: in Iran è assai popolare, così l'ho conosciuta attraverso la sua arte, la sua musica, i libri (Umberto Eco, Italo Calvino) e il suo cinema. Sono cresciuta nutrendomi dei film di Fellini, Antonioni, Pasolini, Rossellini, De Sica. Alberto Sordi era un nome familiare, da noi. Mia madre ad esempio adorava Rossano Brazzi, diceva: è un tale gentiluomo.... Il cinema italiano, nella sua stagione aurea, ha inciso molto sull'immaginario iraniano: due settimane fa, nella preghiera del venerdì, un imam molto vicino all'ayatollah Khamenei, deprecando le donne che si tolgono il velo in pubblico ha infatti inveito tuonando: Costoro, anziché seguire il modello femminile di Fatima, optano per Sophia Loren!. Il fatto è che a prescindere da chi sia al potere, la gente è assetata di bellezza, cultura, vuole esprimersi attraverso la musica, l'arte, la poesia, per mettersi in relazione con altre civiltà».
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