Forgione, i «feriti a morte» di oggi e quella Napoli «bestia morente»

Forgione, i «feriti a morte» di oggi e quella Napoli «bestia morente»
di Francesco Durante
Sabato 29 Settembre 2018, 17:27
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Col suo romanzo d'esordio Napoli mon amour (NN edizioni, 225 pagine, 16 euro; il titolo è un calco dal film di Resnais «Hiroshima mon amour»), Alessio Forgione, giovane napoletano che vive a Londra dove lavora in un pub, ha scritto il Ferito a morte dei trentenni di oggi, e racconta in presa diretta le angosce di una generazione senza prospettive cui è solo dato di stordirsi nelle lunghe notti tra i bar del centro storico coltivando modeste passioni e il sogno di qualcosa che, però, si sospetta non potrà mai davvero arrivare.

Dice Amoresano, il protagonista/narratore: «Mi sarebbe piaciuto essere chiunque eccetto che me». Laureato e ormai vicino ai trent'anni, vive coi genitori a Soccavo, e pure Russo, il suo amico, sta ancora in famiglia, ma in una zona più borghese. A unirli, i film e le serie tv guardati in streaming, e le lunghe notti passate a cazzeggiare tra birre e cicchetti. Amoresano ha lavorato per qualche tempo sulle navi e ha messo da parte un gruzzoletto che si assottiglia sera dopo sera, come una miccia che si consuma. L'evidenza del suo progressivo impoverimento è resa semplicemente registrando sulla pagina il prezzo pagato per ogni spesa. Mentre continua a spedire curricula; mentre si sottopone a mortificanti colloqui di lavoro; mentre si prepara per un concorso e intanto cerca di stonarsi con le imprese calcistiche del Napoli («Al netto di una città distrutta, della musica ch'era morta, del cinema ch'era morto, della letteratura ch'era morta, ... finalmente una cosa viva e potente e combattiva, che se aveva voglia ti prendeva, ti stuprava e poi ti lasciava morto al suolo»), Amoresano coltiva la sua pena di vivere: «Pensai che il mondo non mi voleva e che io non volevo lui. Pensai che una volta finiti i soldi mi sarei ammazzato, questo pensai. Senza urla o sbattimenti, perché era una cosa perfettamente razionale».

La sua è una specie di frenesia da fermo: la mente è fervida, la capacità di osservazione acuta, e il pessimismo è la sua cifra più potente. Accadono però due cose che finalmente paiono cambiargliela, la vita. Una si chiama Nina, ed è la ragazza di cui si innamora e con cui vive mesi di intensa e profonda emozione. L'altra è che un grande scrittore, Raffaele La Capria, riconosce la qualità dei racconti che Amoresano gli ha lasciato in un plico a Roma. A quanto pare, è accaduto veramente: La Capria ha letto Forgione, ne ha inteso la voce, gli ha telefonato e l'ha incoraggiato a misurarsi con un romanzo. Le pagine che narrano tutto ciò sono tra le più riuscite del libro, e colpisce la consentaneità tra il giovanissimo e l'ultranovantenne, quasi che La Capria avesse scritto il suo capolavoro per parlare di e a Amoresano/Forgione.

L'eccitazione dell'amore e quella del riconoscimento artistico entrano nel quotidiano del narratore con la potenza di uno choc. «Volevo la vita e decisi di prendermela, cosciente che m'avrebbe ucciso». Tra il livido inverno e il ritorno della bella stagione, Napoli verrà attraversata in lungo e in largo, da via Giustiniano a piazza del Gesù, dal Molo Beverello a viale Campi Flegrei alla Gaiola (a questi cinque toponimi sono intitolate le cinque parti del romanzo). È quindi anche un libro su Napoli, o meglio: sulla Napoli dei giovani: una città che pare «una bestia morente, un fiore appassito» dove, in un freddo mercoledì, piazza Bellini già brulica di gente («Mi chiesi che lavoro facessero ... e convenni che forse facevano il mio stesso lavoro»). Autentico, e disturbante.

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