Gli affari degli imprenditori anticlan
col padrino dei Casalesi Zagaria

Gli affari degli imprenditori anticlan col padrino dei Casalesi Zagaria
di Mary Liguori
Mercoledì 16 Gennaio 2019, 07:00 - Ultimo agg. 10:44
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È labile il confine tra l'essere costretti a pagare il pizzo e l'essere considerati soci della camorra. Lo sanno bene, da ieri, i gemelli Nicola e Antonio Diana che, con lo zio Armando, sono finiti agli arresti domiciliari a Caserta con l'accusa di concorso esterno con il clan dei Casalesi. Loro che, secondo il capo dei capi Michele Zagaria, «hanno già pagato un prezzo molto alto con l'omicidio del padre, Mario Diana», assassinato nel 1985 a Casapesenna, sono diventati simbolo dell'anticamorra e hanno messo su un impero. Diciassette aziende, da ieri tutte sotto sequestro. Un colpo di spugna clamoroso quello deciso dal gip Maria Luisa Miranda che, su richiesta dei pm Alessandro D'Alessio e Maurizio Giordano, ha ribaltato lo status sociale dei Diana. Da vittime a soci del clan. Ma andiamo con ordine, alle dichiarazioni che, tra il 2014 e il 2017, hanno reso i pentiti dinanzi al pool Dda del procuratore aggiunto Luigi Frunzio. Pentiti di vecchio e nuovo corso. Alcuni concordi nel dire che i Diana sono cresciuti sotto l'ala protettrice di Zagaria, prima di Vincenzo e poi di Michele. Concordi nel dire che, per conto dei boss, cambiavano assegni. Che, ancora, grazie ai «buoni uffici» di Armando Diana presso banchieri di Napoli e Caserta, quei titoli venivano cambiati in soldi senza troppe domande. E, come se onon bastasse, i Diana vincevano aste giudiziarie, anche a Bologna, sbaragliando la concorrenza con la forza intimidatrice del clan.
 
Le accuse vengono da Massimiliano Caterino e Orlando Lucariello, da Giuseppe Misso e Riccardo Di Grazia. Fino a Nicola Schiavone e Antonio Iovine. E pensare che quest'ultimo è il killer del padre dei Diana, Mario, assassinato 24 anni fa e vittima innocente della camorra. Nel processo per la morte del padre, i Diana si sono costituiti parte civile contro «o ninno» e gli altri assassini. Oggi il boss pentito punta l'indice contro la vittima. «Era tra quegli imprenditori che ci sostenevano economicamente in cambio dell'appoggio del clan a far conseguire loro lavori». Eppure Iovine, all'epoca del delitto Diana, per il quale è stato condannato, aveva 20 anni e nessun ruolo decisionale in seno alla cupola. Ma è credibile, per i pm, e con gli altri punta il dito contro i gemelli Diana che, nel tempo, si sono resi promotori di iniziative per la legalità e hanno dato lavoro anche ai figli di vittime innocenti. Imprenditori insospettabili, dunque, sui quali si è focalizzato il mirino dei pm della Procura diretta da Giovanni Melillo secondo la quale i Diana hanno fatto dell'anticamorra uno schermo dietro il quale nascondersi. Il gip ritiene che tra Casalesi e i Diana c'era «reciproca convenienza». Ovvero, quei 30mila euro che i Diana hanno consegnato ogni anno a Natale, dal 2003 al 2009, non erano pizzo, come ha denunciato Antonio Diana, ma una quota di parte che «finiva nella cassa comune». Ed evitava «bussate» da altre cosche, noie da mettere in conto, visto che i Diana fanno impresa ad alti livelli. Il gioiello della catena societaria è la Erreplast, azienda leader nel recupero della plastica. Che infatti attirò gli appetiti dei Russo a Gricignano d'Aversa, appetiti spenti dal «socio» Zagaria in persona, secondo i collaboratori di giustizia.

Eppure, se in sei narrano una storia di contiguità e collusione, la storia che è lo scheletro dell'inchiesta delegata alla squadra mobile di Caserta diretta da Filippo Portoghese, dall'altro lato ci sono altre versioni, «inattendibili» per il gip. Prima tra tutte quella di Michele Barone, il pentito ex affiliato di Zagaria che aveva 12 anni quando Antonio Diana sposò sua sorella. «Zagaria fino al 2003 non ha preteso nulla dai Diana: diceva che avevano già pagato un prezzo altissimo con la morte del padre. Stanno a posto così, diceva». Barone però è il cognato di Diana e per i magistrati non va tenuto in considerazione neanche quando dice: «Ho sempre fatto in modo che quelli del clan non entrassero in contatto con mio cognato, le aziende del marito di mia sorella stavano crescendo e questo attirò Zagaria che infatti mi mandò da lui per cambiare degli assegni, ma Antonio si rifiutò». A breve anche i Diana, difesi dagli avvocati Carlo De Stavola e Claudio Botti potranno fornire la loro versione dei fatti.
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