Silvio disse: benevolenza
per Cinque Stelle e Lega

Silvio disse: benevolenza per Cinque Stelle e Lega
Giovedì 17 Maggio 2018, 14:07 - Ultimo agg. 18:05
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Sendo adunque uno principe necessitato sapere bene usare la bestia, debbe di quelle pigliare la golpe et il lione.
(Machiavelli, storico, filosofo, scrittore, politico e drammaturgo italiano)

Chi governa con la politica di benevolenza, può avere la lunga vita
(Confucio, filosofo cinese)


Inizi maggio 2018. Da due mesi va avanti un’estenuante trattativa per la formazione del governo che ha come epicentro Cinque stelle e Lega, laddove il segretario federale Matteo Salvini fa fatica a salire a bordo dell’arca dell’alleanza che per Luigi Di Maio è pronta a salpare, principalmente perché - novello Orfeo - continua a voltarsi indietro e manifesta preoccupazione nel lasciare sulla banchina al suo destino l’antico socio Silvio Berlusconi dopo avergli strappato la leadership del centrodestra. Mentre, dal canto suo, pure Berlusconi minaccia fulmini e saette qualora il socio leghista decida di indossare i panni del fedifrago, giacché non sono pochi gli enti locali che si reggono sul consolidato patto.

Ma ecco che ad un certo punto, un bel mattino, il forzista Giovanni Toti, governatore della Liguria, spiega ai cronisti di avere parlato nella notte con il Cavaliere e riferisce che le cose sono cambiate: «Lega e M5S hanno i voti per un accordo di governo, a cui Forza Italia non parteciperà con un appoggio esterno. Ma il che non vuol dire che non si possa guardare a questa esperienza di un nostro socio strutturale da vent’anni con critica benevolenza». E suggerisce a Berlusconi la strada dell’«astensione benevola».

Qualche ora più tardi il Cavaliere dà il via libera all’alleato, spiegando con una lunga nota però: «Non potremo certamente votare la fiducia, ma valuteremo in modo sereno e senza pregiudizi l’operato del governo che eventualmente nascerà». È il lasciapassare a quella benevolenza cui accennava Toti.
La contestualizzazione non giustifica, né rende meno singolare il fenomeno: l’utilizzo della parola BENEVOLENZA in politica resta un caso speciale. Soprattutto perché qui il termine non ha nulla a che fare con quella captatio benevolentiae che è topos riconosciuto della retorica politica e che consiste nella capacità dell’uomo politico di catturare la benevolenza di chi si vuole persuadere. Qui non si tratta della benevolenza del cittadino-elettore (che spesso viene scambiata per dabbenaggine), ma di una visione, di un’attenzione che comunemente si fa fatica a riconoscere al politico.

Benevolenza e politica: per quanto ne abbia scritto qualche filosofo come Antonio Rosmini, l'abbinamento sembra un ossimoro, tanto siamo avvezzi a considerare il cinismo politico quasi una dote naturale di chi si occupa della cosa pubblica. Pensiamo per un attimo soltanto al bestiario sterminato di solito associato alle cronache politiche quotidiane: dal caimano alla pitonessa, dal giaguaro al tacchino, dai falchi ai gufi, dalla volpe alla trota, dall'elefante al delfino, dalla balena (ne sono state avvistate di tre specie: bianca, gialla e rosa) al porcellum e al cignalum. Un campionario zoologico da far impallidire quel cattivone di Niccolò Machiavelli (sotto la foto da Flickr, in Creative Commons) che per primo aveva separato l’etica dalla politica. Machiavelli nel Principe (capitolo XVII, anno del Signore 1513) sosteneva che chi vuole governare con successo deve essere di natura ferina come un centauro, cioè deve imparare a comportarsi come il leone (con la forza e la ferocia) e come la volpe (con l’astuzia).



D’altronde le ragioni del cinismo politico sono complesse. Fondamentale lo studio sulla socializzazione politica infantile condotto nel ‘68 da tre etologi americani - D.Jaros, H.Hirsch e F.Fleron - e pubblicato sotto il titolo The Malevolent Leader: Political Socialization in an American Subculture in The American Political Scienze Review. Lo studio rendeva conto di una ricerca realizzata nella regione dell’Appalacchia, nella parte orientale del Kentucky, in un territorio caratterizzato da sottocultura, povertà, isolamento, disgregazione familiare. L’obiettivo era quello di testare i risultati ottenuti poco tempo prima, nel 1962, da David Easton e Robert Hess tra i bambini di Chicago divulgati in The Role of elementary School in political Socialization. Easton ed Hess avevano teorizzato la benevolenza politica infantile, radicandola in due motivazioni: la prima presupponeva la famiglia come agente primario di socializzazione, nella trasmissione diretta ai bambini dei valori positivi sul governo e allo stesso tempo nella protezione dagli stimoli negativi come quelli derivanti da episodi di corruzione dei politici; la seconda spiegazione sosteneva la tesi che la famiglia fosse importante come agente di socializzazione non tanto perché i genitori trasmettessero specifiche attitudini politiche, ma perché i piccoli proiettavano le loro esperienze con le figure a loro più vicine, i genitori appunto, su quelle sociali più lontane, inclusi i politici. In questa prospettiva il padre, percepito da ogni bambino del mondo come benevolo e protettivo, diventava la figura emblematica dell’autorità.



Le tesi erano affascinanti, ma la ricerca aveva un chiaro limite: era stata realizzata nella classe media bianca dell’area industrializzata nordamericana. E lo studio tra i bambini poveri e disagiati del Kentucky ribaltò quelle tesi. Esemplificative le risposte che gli studenti (dalla quinta alla dodicesima classe) diedero sulla figura del Presidente. Solo il 31% credeva che il Presidente amasse quasi tutti, mentre un altro 31% pensava addirittura che al presidente americano piacessero meno persone rispetto alla maggior parte degli uomini. Nessuno studente dell’ultima classe pensava che fosse la persona migliore del mondo, mentre il 33% ne dava un giudizio negativo.
L’esito andò a confermare una consolidata teoria del filosofo e teologo Antonio Rosmini, che aveva scritto di benevolenza sociale in Filosofia della politica (1858) e aveva osservato come questa fosse in stretto rapporto con le buone condizioni economiche della società poiché «la miseria sopravviene a soffocare lo spirito di benevolenza che nell'abbondanza liberamente sorride».

Ben diverso il rapporto tra benevolenza e politica in oriente.



Basti considerare che nel Palazzo d’estate a Pechino c’è una sala chiamata apposta della benevolenza e della longevità. La Sala fu costruita nel 1750 dall’imperatore Qianlong e inizialmente fu battezzata come la Sala dell’Amministratore Laborioso, in cui l’imperatore Qianlong riceveva i mandarini e i ministri ed ascoltava i loro rapporti di lavoro durante le sue vancanze estive. La Sala fu distrutta nel 1860 da un incendio e ricostruita nel 1890 dall’imperatrice reggente Cixi, la quale le diede il nome della Sala della Benevolenza e della Longevità, ispirandosi ad una massima di Confucio, perché il maestro Confucio disse una volta ai suoi discepoli: «Chi governa con la politica di benevolenza, può avere la lunga vita». In questa sala l’imperatrice Cixi trattava gli affari dello stato insieme con l’imperatore Guangxu, facendo il famoso Ascolto alla discussione Politica dietro la Tenda.
Nei Dialoghi, (sesto-quinto secolo avanti Cristo), Confucio aveva tratteggiato la benevolenza come un sentimento di umanità reciproca. Già perché nella lingua cinese benevolenza è rappresentata dal carattere 仁 (rén) che nella parte sinistra ha il radicale “uomo” e in quella destra il simbolo di “due” intendendo che la definizione di uomo implica sempre una relazione tra un individuo e la molteplicità degli altri uomini.

corrado.castiglione@ilmattino.it
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