Auto e turismo, perché in Italia
la new economy non decolla

Auto e turismo, perché in Italia la new economy non decolla
di Francesco Pacifico
Lunedì 21 Novembre 2016, 08:28 - Ultimo agg. 11:09
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Negli Stati Uniti un americano su quattro arrotonda (e bene) affittando una stanza di casa su Airbnb o cimentandosi come autista per Uber nel tempo libero. Da noi, invece, soltanto uno su due riesce a guadagnare in questo modo.

Un errore non vedere le potenzialità in Italia della Sharing economy: se il giro d'affari non supera i 3,5 miliardi di euro, non pochi rispetto all'intero fatturato europeo di «soli» 28 miliardi, il Belpaese ha la maggiore propensione dopo Spagna e Turchia a condividere beni e servizi.

Sharing Economy, economia collaborativa, Gig economy, al di là dei nomi almeno una parte del Paese la linea di demarcazione è ancora il Garigliano ha imparato ad ammortizzare benzina e autostrada sui lunghi viaggi con Blablacar; per la città si affida al car sharing e risparmia sul parcheggio; le municipalizzate affittano bici davanti alle fermate della metropolitana come fa a Milano l'Atm con BikeMi; ordina la cena ai driver di Foodora; cerca fondi per i propri business sulle piattaforme di crowdfunding. E si intravedono già realtà più all'avanguardia, che vogliono essere l'evoluzione delle banche del tempo o del microcredito. Come Soisy, startup di un ex riskmanager Bnl (Pietro Cesati), che permette prestiti tra privati.

Il tutto nonostante non manchino freni al settore legati alle richieste degli esercenti tradizionali di regolare queste attività. Ma che spesso si riducono in semplici e obsoleti revanscismi corporativi. Proprio negli ultimi giorni Matteo Renzi si è preso la briga di scomunicare una deputata del Pd (Silvia Fregolent), che aveva proposto di estendere la cedolare secca sugli affitti anche agli affittacamere: «Finché sarò io premier, le tasse non si alzano, scendono», ha twittato. Il Ddl Concorrenza, se mai sarà approvato, su questo versante è riuscito soltanto a produrre una delega al governo per regolamentare Uber.

Intanto alla Camera naviga a vista lo Sharing economy act, il primo tentativo nella Ue di normare il settore: si litiga sulle tasse da far pagare ad Airbnb, ma pure sui confini delle attività di home restaurant, che consente di trasformare la propria casa in un ristorante aperto a estranei. Senza considerare le critiche alla soglia di 10 mila euro sopra il quale si passa da «microattività non professionale o imprenditoriale» a «lavoro» o il fatto che si fa chiarezza sulla zona grigia tra cooperazione dei freelance e business delle aziende, i rapporti con la Pa o i diritti degli impiegati. Il tutto mentre a Torino i driver di Foodora incrociano le braccia e, come i pony express negli anni Ottanta, chiedono un riconoscimento e respingono il tentativo della startup tedesca di retribuirli a prestazione. Cioè a numero di consegne, a cottimo.

Sempre nel capoluogo campano, con il boom dei turisti tra maggio e giugno, gli albergatori hanno lanciato un sito per denunciare i B&B e gli affittacamere a nero. Ad Agrigento, invece, il fronte si è capovolto: la locale associazione di B&B ha protesta contro il Comune che aveva sospeso il servizio di Mudicar, le mini auto elettriche per visitare i centri storici, dopo che una delibera ha intimato lo stop «al transito di auto con qualunque tipo di alimentazione per finalità di massima riduzione dei rischi connessi alla preminente pedonabilità dell'area Ztl». Ottimista sul futuro è, invece, l'economista Luciano Canova, dell'università di Pavia. Il quale oltre a calcolare che oggi il comparto vale poco più di due punti di Pil e copre l'1 per cento della spesa complessiva degli italiani, ha stimato che da qui al 2025 il giro d'affari potrebbe salire fino a 25 miliardi di euro. «Non escludo», ha aggiunto dalle colonne del Sole24Ore, «neanche uno scenario bolla, dove dopo un picco di 14 miliardi nel 2019, si torna a 4 miliardi di euro nel 2025. Ma perché ciò avvenga ci dovrebbe essere un forte irrigidimento istituzionale, visto che l'irrompere della sharing ha ormai mutato a fondo i rapporti tra economia e società».

Se questo è il futuro, il presente restituisce un quadro diverso. Guardando a chi offre (o si offre) e a chi compra i servizi, si scopre che soltanto sul versante della domanda sono circa 6,4 milioni gli italiani che si rivolgono almeno una volta alla settimana a vari BlaBlaCar. I quali potrebbero diventare 16 milioni entro il decennio, non fosse altro perché soltanto un terzo delle piattaforme esistenti ha più di 30mila utenti registrati. La spesa media, secondo la Ue, è oggi di 7.200 euro all'anno.

Interessante poi l'identikit dei consumatori: sotto i 44 anni, con un alto profilo di istruzione e per la stragrande maggior residenti o provenienti dal Nord: il 53 per cento. Lontani, infatti, il Sud e le Isole (25 per cento) come il più ricco Centro Italia (22 per cento).

La stesse sperequazioni si vedono nella distribuzione delle piattaforme di sharing economy. Che alla fine del 2015, secondo un rapporto di ShareItaly, hanno toccato quota 138 e alle quali vanno aggiunte 68 destinate al crowdfunding. In totale sono 206, in crescita del 10 per cento rispetto all'anno precedente. Ma di queste il 70 per cento è al Nord, mentre sotto Roma le uniche sei esistenti sono ospitate, tre a testa, in Sardegna e in Sicilia. Più in generale, circa un quarto offre servizi a persone e imprese, il 18 per cento si dedica ai trasporti, il 9,4 alla cultura. Nessuna di questo è un campione nazionale, capace di esportare i suoi servizi all'estero. Ma rispetto al passato non mancano startup, soprattutto sul versante culturale, che sanno servire nicchie di mercato, che le multinazionali fanno fatica a raggiungere.