Villaggio, l'uomo che inventò un congiuntivo

Villaggio, l'uomo che inventò un congiuntivo
di Marco Ciriello
Mercoledì 5 Luglio 2017, 08:50 - Ultimo agg. 09:07
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Prima della maschera e delle situazioni c'era la sua lingua, che andava oltre Fantozzi, Fracchia o il professor Otto von Kranz, e che in circolo tornava da lui, dallo scrittore Paolo Villaggio. Villaggio amava scrivere più di Vittorio Gassman, gli piacevano i giochi di carambola e rimando con Umberto Eco, le discussioni con Oreste del Buono, aveva letto e digerito Marcello Marchesi, Achille Campanile, Ennio Flaiano e tutti i russi, e sapeva dove colpire Alessandro Manzoni, per questo era riuscito a darci Fantozzi evolvendo Paperino e il cinema muto e anticipando il Monsieur Malaussène di Daniel Pennac.

Dalla sua aveva una lingua forte, descrittiva, e soprattutto innovativa, piena di connessioni e di invenzioni, con il ribaltamento dell'errore, la coniugazione sbagliata del verbo diventava colpo di classe, il resto stava tutto nella scelta degli aggettivi e nella trasformazione in refrain: agghiacciante, ascellare, galattico, mostruoso, pazzesco, umiliante, tragico; basta elencarli per vedere apparire le scene, venire giù come pioggia, potenza della lingua di Villaggio prima ancora che del cinema. E poi c'erano le liste, di luoghi e abbigliamento, l'utilizzo del tempo sempre avverso, dalla nuvola in giù, solo rovesci e gli oggetti che gli si rivoltavano contro quasi più delle situazioni. Villaggio componeva i personaggi addobbandoli con gadget prima ancora che con tic e difetti, usando la comparazione come tragedia finale. Descriveva benissimo per distruggere, comparava situazioni come tempi e misure d'atletica, per essere definitivo, e se serviva ci metteva la parolaccia con uno stile pre-busiano.

Il resto era tono, se già si rideva sulla pagina, l'aggiunta più dell'immagine era nella sua voce non a caso aveva scritto anche delle canzoni per Fabrizio De Andrè, su tutte «Carlo Martello» che conosceva le scale e i livelli, e ci giocava. Tutto questo si esplicita in Fantozzi, dove si realizza anche l'apoteosi del verbo «il congiuntivo fantozziano», preceduto dalla descrizione dell'abbigliamento che in molti conoscono a memoria: «Abbigliamento di Filini: gonnellino pantalone bianco di una sua zia ricca, maglietta Lacoste pure bianca, scarpa da passeggio di cuoio grasso, calza scozzese e giarrettiere, doppia bacchettina liberty da volano. Fantozzi: maglietta della GIL, mutanda ascellare aperta sul davanti e chiusa pietosamente con uno spillo da balia, grosso racchettone 1912, elegante visiera verde con la scritta: Casinò Municipale di Saint Vincent», dopo c'era uno dei punti più alti della lingua villaggesca, che poi divenne l'introduzione ad ogni scambio con Adriano Panatta «ti prego, Paolo, me lo fai? Che cosa? Il congiuntivo fantozziano. Ancora? Ti prego, mi fa troppo ride'. Ok: dammi il la. Bene: allora, ragioniere, che fa, Batti? Ma, mi dà del tu? No, no, dicevo, Batti lei? Ah, congiuntivo, aspetti...». 

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