Oggi l'addio a Necco, simbolo di Napoli e cantore di un calcio che non esiste più

Oggi l'addio a Necco, simbolo di Napoli e cantore di un calcio che non esiste più
di Pietro Gargano
Mercoledì 14 Marzo 2018, 06:48 - Ultimo agg. 12:09
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«Milano chiama, Napoli risponde». Non era una frase a effetto ma un commento nitido a una vittoria del Napoli, impegnato nella corsa allo scudetto col Milan. L’autore, Luigi Necco, se ne è andato per una crisi respiratoria, avrebbe compiuto 84 anni l’8 maggio. Fu il cantore di un calcio che non esiste più. Un calcio giocato solo nelle domeniche ancora di festa, fatto di rivalità di campanile più pacioccone e di maggiore umanità. 

Nell’immaginario collettivo resta il protagonista di “90° Minuto”, la trasmissione di Paolo Valenti, per quindici anni, dal 1978 al 1993. Resta il cronista che lavorava dal San Paolo sullo sfondo di guaglioncelli ultrà urlanti «Forza Napoli!» e salutava con la mano aperta a ventaglio. Si meritò popolarità nazionale per gli amabili battibecchi con qualche inviato della provincia, Tonino Carino da Ascoli, Giorgio Bubba da Genova, Franco Strippoli da Bari, Fedele La Sorsa da Campobasso, Claudio Cojutti da Udine, Luigi Tripisciano da Palermo, Luigi Coppola da Cagliari. E con Cesare Castellotti da Torino, forse antipatico perché raccontava la Juve. Tra loro un fuoriclasse come Beppe Viola e un giovanotto snello e atletico di nome Galeazzi, poi Bisteccone. Una volta Valenti s’ingrifò in diretta: «Necco, Vasino e Castellotti, se proprio dovete litigare, telefonatevi».
 

 

Necco commentò: «Eravamo tutti pupazzi nelle mani di Valenti, lui ci dirigeva dosando bastone e carota. A ognuno di noi appioppavano nomignoli, Marcello Giannini da Firenze diventò Macello Giannini. Parlavamo semplice, senza pistolotti tecnico-tattico-statistici. La gente ci amava nonostante le nostre gaffe, anzi soprattutto per quelle». In sostanza sapevano raccontare in pochi secondi un’ora e mezza di gioco, di farla vedere. 

Seppe coniare formule sintetiche e facili da ricordare. Dopo una vittoria del Napoli sul Parma disse: «Clamoroso: il parmigiano sotto e il pomodoro sopra». Diego Maradona nel 1986 a Città del Messico segnò un gol con la mano e lui gli chiese: «La mano de Dios o la cabeza de Maradona?». Diego rispose: «Las dos», tutt’e due. Piovvero interviste per le tv sudamericane.
 

Era un uomo di frontiera, gigione e rigoroso, pigro e instancabile, passionale e disincantato, tifosissimo del Napoli e imparziale sul lavoro, battutista e mai sguaiato, serio e mai serioso, confidenziale con tutti e mai ruffiano. Fu il pallone a renderlo un’icona, eppure Luigi soffriva di un eccesso di cultura ed è rimasto fino in fondo un cronista di vaglia, innamorato di Napoli che gli aveva dato i natali nel rione della Sanità. Nonostante i malanni e l’età avanzata, è stato sul pezzo fino all’ultimo. Girava con una minuscola cinepresa per documentare vizi e valori della città, con didascalie taglienti come “buche senza golf” a proposito dei sanpietrini divelti. Si dedicava ai progetti di legalità per le scuole con la Prefettura e l’Ordine dei giornalisti. Poco prima di Natale intervistò Renzo Arbore in occasione della sua mostra a Palazzo Reale, una delle estreme sortite in pubblico. Ai primi dell’anno l’aggravarsi dei problemi di salute e il ricovero al Cardarelli, fino all’epilogo.
 
 

Lavorò molto anche da Avellino è là vicino, a Mercogliano, il 29 novembre 1981 fu gambizzato con tre proiettili, all’uscita da un ristorante, da tre sicari inviati da Vincenzo Casillo ‘O Nirone, luogotenente del boss Raffaele Cutolo carcerato. Prima di fuggire i tre scrissero sull’auto del giornalista «Tu vulive fa’ ‘o criticone?». La sua colpa era di aver raccontato, pochi mesi prima a “90° Minuto” dell’omaggio a Cutolo da parte del pittoresco presidente irpino Antonio Sibilia, in un’aula del tribunale. Sibilia baciò il Camorrista tra volte sulle guance e affidò a un suo campione, il brasiliano di colore Juary, la consegna d’una medaglia d’oro con dedica. Tentò di giustificarsi: «Cutolo è un nostro supertifoso; il regalo non è una mia iniziativa ma una scelta del consiglio di amministrazione».

In quel periodo volavano puntate sul calcioscommesse e mazzette per gli appalti sulla ricostruzione post terremoto. Luigi seguiva pure quel filone, firmando molti servizi. Anche nell’occasione fu cronista impeccabile: «Chiesero a Cutolo se il mio sgarro doveva essere punito, se potevano spararmi. Lui rispose che i giornalisti non si toccano e aggiunse: Necco mi è pure simpatico».
 
 

Approdò al mestiere quando studiava all’Orientale. Scrisse i primi articoli sul Corriere di Napoli, il quotidiano della sera della stessa catena del Mattino. Passò alla Rai, prima al giornale radio e poi in tv. La svolta con la chiamata di Paolo Valenti. Al suo ritiro, Luigi capi ch’era tramontata un’epoca e riversò il talento su diverse passioni. Nel 1992 condusse il programma culturale «Parlato semplice» di Gabriele La Porta. Nel 1997 guidò per qualche mese, subito dopo Antonio Lubrano, «Mi manda Raitre» in difesa dei consumatori. Diede sfogo all’amore per l’archeologia in «L’occhio del faraone» (1993-1997). Nel 2005, passati a Mediaset i diritti del calcio, su invito di Maurizio Costanzo curò le dirette dai campi per Canale 5 di Berlusconi, al quale aveva consigliato, in tribuna a San Siro, di passare alla politica, ricevendo in risposta un secco “mai”. 

In pensione dalla Rai creò per Teleoggi Canale 9 il programma «L’emigrante», cronaca quotidiana di fatti e misfatti. Forse il titolo era in qualche modo autobiografico perché Luigi, come spesso accade, non ha visto riconosciuti tutti i suoi meriti nella patria napoletana, che non volle mai lasciare. Restò come imprigionato nella cornice opalescente di “90° Minuto”. Eppure, nella mai interrotta militanza civile fu consigliere comunale dei Democratici di Sinistra dal 1997. Diresse in un momento critico l’Ente provinciale per il turismo. Fece una scoperta archeologica di rilevanza mondiale. Inseguendo un sogno giovanile, investendo i risparmi di una vita, per molti anni andò a caccia del tesoro ritrovato a Troia nel 1873 da Heinrich Schliemann. I tedeschi lo ritenevano perduto nel bombardamento dello Zoo di Berlino, 1945. Invece Necco, esplorando l’Europa dell’Est, individuò i ladri e trovò il nascondiglio di ori e gemme a Mosca. Nel 1993 scrisse per Tullio Pironti tutta la storia, «Giallo di Troia». Solo tre anni più tardi, il 16 aprile 1996, il tesoro venne esposto nel Museo Puskin delle Belle Arti a Mosca. Pironti fu anche l’editore, nel 2014, di «Operazione Teseo» dedicata all’eroe militare Siro Riccioni.
 

Quello che è mancato sotto forma di riconoscimenti ufficiali da parte del potere è stato ampiamente ripagato dall’affetto della gente. Al tavolino di un bar o per la strada tutti riconoscevano quella faccia sotto i cappellacci, incorniciata da sciarpe in preferenza rosse. E lui rispondeva alle domande, sempre gentile. Narrava aneddoti, si lamentava perché a Napoli pochi sanno di possedere opere di Guido Mazzoni e Donatello, raccontava di quando al San Carlo Erminio Scalera interruppe la triste agonia di Tristano gridando: “Ma quant’è bella ‘a morte ‘e subbeto”.

Aveva una pagina su Facebook, sfogliata da molti per ritrovare lampi di genio e frammenti di passato.
Pubblicava riflessioni e qualche foto della figlia Alessandra. L’ultima frase da lui postata è illuminante: «A cena con un coetaneo. Mi scruta severo, sei un po’ bohème. Abbasso il capo. Non ho né terra né mura, ai miei tempi si lavorava». Matteo Cosenza, dirimpettaio del pianerottolo a Villa Maio, non si perdona per non avergli mai detto di aver sepolto nel suo giardino il cagnolino che gli dava fastidio. Gianni De Chiara lo saluta come sempre: «Carovita, caroprezzi, caro Necco». Io recupero una sua frase - «Mi piacerebbe vedere il campionato stravolto dall’impossibile» - per augurargli di vedere. da dove sta sotto braccio a Peppone Pacileo, «tre nuvole che soffici e rotolanti s’infilano nella rete dei sogni. Forza Napoli!». Statte bbuono, Gigì, nce vedimmo.

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