Esposito, un afroamericano a Manhattan: «Nessuno voleva il nero napoletano»

Esposito, un afroamericano a Manhattan: «Nessuno voleva il nero napoletano»
di Francesca Scorcucchi
Mercoledì 10 Ottobre 2018, 11:00 - Ultimo agg. 13:18
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Giancarlo Giuseppe Alessandro Esposito. Anche quando pronuncia il suo intero nome, tutto italiano, il suo accento anglosassone è inequivocabilmente presente. Parla perfettamente la nostra lingua, così come lo spagnolo, ma è nato a Copenaghen e cresciuto a Manhattan ed è un cittadino del mondo con una passione particolare per l'Italia. «La amo e ci vengo spesso, mi sento a casa. Sono, mi sento italiano e quando sono arrivato in America ho faticato. Nessuno vedeva in me un napoletano, tutti vedevano un afroamericano per il colore della pelle, mi sono dovuto adattare a questa realtà. È uno degli aspetti più difficili per me del paese nel quale sono cresciuto. Vai in Inghilterra e ci sono gli inglesi, bianchi o neri che siano, vai in Spagna e ci sono gli spagnoli qualsiasi sia il colore della loro pelle. In America no, qui è tutto in bianco e nero».
 
Giancarlo Esposito è il robot El Lazo di «Westworld» ma soprattutto è il famigerato Gustavo Fring di «Breaking bad» e ora del prequel «Better call Saul» di cui negli Stati Uniti è andata in onda l'ultima puntata della quinta stagione, prossimamente lo vedremo nella fiction «Godfather of Harlem» con Forrest Withaker sul boss Bumpy Johnson e poi nell'adattamento cinematografico del romanzo «Stargirl» per il servizio streaming della Disney. Classe 58, è nato a Copenaghen e recita da quando aveva 8 anni, avendo fatto parte di set cinematografici importanti alla corte di registi come Coppola («Cotton club»), Spike Lee («Aule turbolente»), Abel Ferrara («Re di New York»). «Sono figlio di un costruttore di set teatrali, mio padre Giovanni era napoletano, e di un'attrice e cantante d'opera afroamericana, Elisabeth Foster», ricorda lui. I genitori si conobbero alla Scala, dove Giovanni costruiva impalcature scenografiche e lei cantava. Il matrimonio non durò, divorziarono quando Giancarlo era bambino, lui e il fratello andarono a vivere negli Stati Uniti con la mamma. «La mia parte italiana ha vinto sempre, anche quando ci trasferimmo a New York».

Gli inizi della carriera sono stati difficili: «Arrivavo alle audizioni e con il mio italianissimo nome si aspettavano di vedere un ragazzo bianco, dalle fattezze italiane, invece arrivavo io. Erano spiazzati, per molto tempo, a causa di questa dicotomia, ho subito molti rifiuti. Scusaci, non avevamo idea che fossi nero, questa parte è solo per bianchi, per italo-americani. Mi guardavano come un marziano. È stato frustrante e a inizio carriera ho accettato tutto quel poco che mi veniva proposto. Erano tutte parti da tossicodipendente, da malvivente, poi un giorno ho detto di no, basta, non ne potevo più di questi stereotipi. Avevo 17 anni e, anche se è stata dura, è stata una scelta vincente».

Così Giancarlo Esposito, il napoletano-afro-americano, a 17 anni smise di lavorare: «Non c'era spazio per uno come me». Le cose cambiarono solo tempo dopo, quando per la serie tv «Law & order» gli fu proposta una parte da avvocato. «Quel piccolo ruolo mi cambiò la vita e la carriera».

Il Gus Fring di «Breaking bad» e «Better call Saul è tutt'altro che un brav'uomo: «Ora anche i fan hanno timore di me, se mi incontrano per la strada si accostano al muro e mi fanno passare. Ho accettato di tornare a interpretare un malvivente dopo tanti anni, solo perché Breaking bad è stata una serie che aveva un messaggio importante e volevo far parte di quel messaggio. C'è un'America povera, ancora oggi, che vive di sussidi, che non ha modo di essere curata perché non esiste un vero sistema sanitario, che rischia ogni giorno di essere risucchiata nel vortice delle tossicodipendenze, metanfetamine, oppioidi. È una piaga enorme e una piaga di oggi che la serie denunciava, per quello l'ho voluto fare».

La tv gli ha regalato la popolarità ma è il teatro il suo grande, primo amore. Iniziò a teatro quando era ancora un bambino: «Era il 1966. È stata un'esigenza. Avevo un talento e dovevo aiutare la mia famiglia, eravamo poveri, abbiamo vissuto per anni grazie ai sussidi alimentari del governo. Ho ancora in tasca quei famigerati food stamps. Togliersi dalla testa la mentalità da povero, una volta che riesci ad uscirne, è la cosa più difficile ma è importantissimo e non perché c'è vergogna nell'essere povero ma perché se stai tentando di sopravvivere, se ogni giorno devi mettere insieme il pranzo con la cena non puoi creare, non hai le forze per essere creativo, sei solo un ingranaggio in una ruota più grande di te, non puoi trovare la tua ragione di vita e tutti noi siamo qui per una ragione».
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