«Io, elenaferrantiana doc, riconosco solo Lila e Lenù»

«Io, elenaferrantiana doc, riconosco solo Lila e Lenù»
di Titti Marrone
Martedì 2 Ottobre 2018, 07:00 - Ultimo agg. 12:43
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Le due bambine sembrano staccarsi letteralmente dalla pagina de L’amica geniale, e non solo per la somiglianza con le protagoniste di Elena Ferrante né per l’intensità di certi sguardi torvi e muti rivolti di sottecchi al mondo dei grandi che le annichiliscono con imperio cattivo: Elisa Del Genio nei panni di Lenuccia, Ludovica Nasti in quella di Lila, svelano un’adesione spontanea ai rispettivi personaggi che ha dell’impressionante. E si rivelano decisamente la parte migliore, quella destinata a non deludere i ferrantiani, delle prime due puntate della fiction televisiva. L’autrice è stata, del resto, assolutamente precisa nell’indicarne le caratteristiche, disegnando due silhouettes di bambine diversamente collocabili nella classicità delle tipizzazioni napoletane.
 
«Piccola, nera, nervosa», o anche «scura di capelli, di occhi e di grembiule, con fiocco rosa al collo» Lila, la bambina «terribile e sfolgorante» che era «troppo per chiunque… arruffata, sporca, alle ginocchia sempre croste di ferite»; bellezza di una qualche lontanissima ascendenza normanna Lenuccia, capelli dorati a scivolare ordinatamente sulle spalle, occhi chiari e profondi, «bellina» e felice di esibirsi «ma non sfrontata», capace di comunicare «un’impressione di delicatezza che inteneriva».

Anche la caratterizzazione di altri personaggi aderisce assai bene alle pagine del libro: oltre ai bambini, svettano don Achille, l’orco delle favole interpretato alla grande da Antonio Pennarella di recente scomparso; Melina, con la sua follia d’amore che ricorda la «poverella» de “I giorni dell’abbandono”; la maestra Oliviero con corporeità e piglio propri delle insegnanti nei primi anni ‘50. Ma gli appassionati frequentatori delle pagine della Ferrante faticheranno, com’era del resto inevitabile, a trovare nella riduzione filmica quella che definisco “la ragnatela fatata” di una scrittura dalla forza espressiva resa potente dalla parola letteraria. L’estrema fedeltà al testo svelata fin dalla prima inquadratura, la successione di sequenze sulla vita del quartiere Luzzatti ricostruito in studios, i conflitti violenti tra i suoi abitanti possono solo in parte restituire l’evocazione della città raffigurata nella quadrilogia, come avvolta in un sortilegio, un luogo in cui abita un senso di eterna sospensione, l’attesa di un riscatto che non arriva mai. Il senso di una speranza subito cancellata, come per il desiderio di Lila di continuare gli studi, per quello di Lenù di allontanare da sé lo spettro della figura materna, come per la stessa Napoli. E pur seguendo con attenzione lo sviluppo di una narrazione su cui la stessa Ferrante ha vigilato, il film non arriva a riprodurre, oltre l’evenemenziale, la complessità delle letture sottese alle vicende rappresentate.

Sono assai poche le digressioni rispetto alla storia contenute nelle prime due puntate, come l’aggressione in chiesa ad Alfredo Peluso, o la spiegazione fornita da Lila della propria capacità (“arapo ‘o sicchio cà tengo ‘ncapa e tiro fore ‘e parole”). Una “libertà” di grande suggestione che la fiction si concede è suggerita da un incubo di Lenuccia: è la raffigurazione della violenza come codice principale dilagante tra gli abitanti del quartiere, e soprattutto tra le donne, sotto forma di centinaia di blatte fuoriuscite nottetempo dai tombini per spargersi tra le strade, arrampicarsi lungo i muri delle case, penetrare nelle bocche delle madri addormentate. E proprio la violenza, nella fiction fattore identitario prevalente, se non esclusivo, riprodotto nel linguaggio, nelle “mazziate” ai nemici come ai figli, conferisce alla fiction un timbro un po’ cupo che sovrasta la ricchezza dei piani di lettura di una vicenda raccontata sulla pagina scritta come storia di relazioni, tradimenti, passioni, interiorità complesse.

Così forti e universali da fare da specchio a lettori di ogni parte del mondo. 

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