Lady Mcbeth scandalosa: l'eros seduce il teatro San Carlo

Lady Mcbeth scandalosa: l'eros seduce il teatro San Carlo
di Stefano Valanzuolo
Lunedì 16 Aprile 2018, 10:36
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Se c'è un ambito nel quale Shostakovich non adottò mezze misure, preferendo rimanere sempre esplicito, è quello musicale. Nelle interviste, nelle lettere, nelle molte dichiarazioni pubbliche (spesso di facciata) il compositore faceva ricorso volentieri a figurazioni ambigue, fosse anche solo per istinto di conservazione. Nella sua musica, invece, campo privilegiato d'azione e di pensiero, tradusse istinti e sentimenti senza intermediazioni politiche ed intellettuali. Così, la settima Sinfonia appare giustamente enfatica, l'ottavo Quartetto struggente, «Il naso» trabocca di sarcasmo e «Una Lady Macbeth del distretto di Mcensk» è violenta, forte, sensuale. Nella musica prima ancora che in ogni riga del libretto e a prescindere da qualsiasi scelta registica. Sminuirne la forza immediata d'impatto, con soluzioni attenuate - per pruderie o in nome di un politicamente corretto che Shostakovich non applicò mai, in musica e teatro - sarebbe improponibile.

Lo spettacolo andato in scena ieri sera al San Carlo, con la regia molto personale di Martin Kuej, riesce a rimarcare la crudezza della storia messa in musica da Shostakovich e - ove possibile - esagera, cercando la vena grottesca che ribadisca il realismo dell'azione. Sceglie il tema del piacere fisico frustrato dalle convenzioni e dal potere come leitmotiv narrativo, e ne pone presupposti ed esiti sotto gli occhi di tutti, aprendo allo sguardo indiscreto del paese la casa-prigione trasparente di Katja. Quello che non si dovrebbe sapere, allora, viene proclamato con evidenza e scandito dalla musica. Quello che non si dovrebbe vedere - comprese le ormai famigerate «mutande», che sono un segno e non uno sfizio per voyeur - finisce in piazza. La violenza, sessuale o omicida che sia, non è nascosta, ma ostentata all'occhio come all'orecchio. I dettagli del primo amplesso tra Katja e Sergej, celati in parte dall'effetto di luce stroboscopico disegnato dalla regia, vengono suggeriti da un trombone irriverente. La partitura non tace nulla di quanto avvenga sulla scena, e quando le parole mentono (si pensi al finto dolore degli abitanti del villaggio per la partenza del padrone), l'orchestra dice la verità.
 
Sotto questo profilo, la regia di Kuej - che si giova di scene (Martin Zehetgruber), luci (Reinhard Traub) e costumi (Heide Kasstler) originali e funzionali - appare pertinente e interessante, oltre a risultare efficace in termini di gestione delle masse e vivacità dell'azione. L'elemento erotico, celebrato senza reticenze ma anche senza gratuita volgarità, non è orpello compiacente, ma sostanza della storia, qui trasposta felicemente in epoca moderna.

In un'opera che gronda musica da ogni punto, il rischio per chi vada sul podio è quello di lasciarsi travolgere dal fiume in piena, bello e impetuoso. Juraj Valcuha, invece, confidando nella conoscenza profonda del pezzo, dona al racconto fluidità e coerenza teatrale, facendo aderire costantemente il suono alla scena. Senza omologare né conformare a standard stilistici rassicuranti un racconto che procede naturalmente a strappi, il direttore domina la trama sinfonica rigogliosa, mettendo a frutto un controllo assiduo su strumenti e sezioni. Il resto si ottiene grazie alla concentrazione e, non di rado, alla brillantezza dell'Orchestra del San Carlo, spinta dal podio a cercare colori originali e espressivi anche nelle eccellenti sortite solistiche.

La generosità di Shostakovich sul piano strumentale e sinfonico impone ai cantanti, in molti momenti, uno sforzo fuori dall'ordinario. Supportati da Valcuha, che tiene felicemente in equilibrio dinamiche e volumi, i protagonisti dell'opera sfoderano una prestazione di notevoli impeto e generosità. Spicca, per pienezza di timbro e gestione attenta dello strumento vocale, la Katja straripante di Natalia Kreslina, ricca di chiaroscuri suadenti. Ladislav Elgr (Sergeij) è puntuale, scenicamente pertinente, senza sbavature né slanci speciali. Convincente la caratterizzazione che Dmitry Ulianov offre del suocero Boris, despota e lascivo. Ma tutto il cast - lo squillante Zinovij, Aksinja, il Pope clownesco - alle prese con un tipo di canto non familiare (né, forse, caro) al grande pubblico italiano, sostiene la scena e il cimento con molta verve. Merita attenzione speciale, infine, la prova del Coro (preparato da Marco Faelli e rafforzato in modo decisivo dagli aggiunti del Teatro Marinskij), al quale questa regia richiede un impegno extra, semmai non bastasse la partitura.

Sala molto meno affollata rispetto ad altre prime più consuete (la curiosità è optional in disuso); qualche fuga nell'intervallo, altre durante il successivo cambio scena non previsto. Ma alla fine è ovazione per tutti con Valcuha sugli scudi. E questo è un ottimo segno.
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