Zamboni: «Revolution rock
per i cent'anni dal 1917»

Massimo Zamboni e sovietica compagnia
Massimo Zamboni e sovietica compagnia
di Federico Vacalebre
Venerdì 20 Ottobre 2017, 13:34
3 Minuti di Lettura
Fedele alla linea, e al centralismo democratico, Massimo Zamboni non ha buttato via il bambino con l’acqua sporca: partirà da Napoli, teatro Augusteo, il 7 novembre, il tour italiano di «Un secolo di Cccp», ovvero «I Soviet + L’elettricità», ovvero ancora un comizio musicale dello stesso Zamboni, ex Cccp e Csi, come «l’artista del popolo» Fatur, in scena con Angela Baraldi, il leader degli Offlaga Disco Pax Max Collini, l’ex Ustmamò Simone Filippi, il percussionista Simone Beneventi, il tastierista Cristiano Roversi e il chitarrista Erik Montanari.
Si sente ancora comunista, Zamboni?
«Non direi, anzi la parola mi suona come “ti amo”, che nessuno sa che cosa significhi davvero».
E allora perché celebrare i cent’anni dal 1917 con un amarcord da revolution rock?
«Perché il presunto secolo breve non è mai finito, è stato forse il più lungo di sempre. Perché sono un punkettone che viene dall’Emilia paranoica e filosovietica e da quella temperie vengo, perché ragioneremo su parole come comunismo, Pankow, Urss, Leningrado, Jugoslavia, utopia, riscatto, emancipazione, eguaglianza... Sono scomparse dal nostro vocabolario, ma restano le emozioni che sottintendevano».
Un altro mondo non è più possibile?
«Credo fermamente che un altro mondo sia possibile. A livello personale le mie conquiste, anche l’approdo al nuovo mestiere di scrittore, mi hanno regalato una libertà soddisfacente. Sul fronte collettivo spero passi presto la nuttata: ne abbiamo conosciute altre in Italia».
Vedremo molte bandiere rosse in scena?
«Nemmeno una, nessun feticcio falce e martello. Abbiamo già dato. Noi musicisti-comitato centrale ci muoveremo su un palco che userà i veri simboli dell’iconografia politica di un tempo: le tribune e il podio. Nasconderemo gli strumenti, lasciando alle percussioni l’azione, altrimenti narrata dalle immagini sugli schermi: anche lì, non aspettatevi di vedere i leader, ci saranno piuttosto gli oppressi che si liberano diventando nuovi oppressori. Ci saranno grandi speranze collettive e grandi drammi collettivi, sogni e sangue, aspirazioni e guerra».
Il manifesto però punta su Lenin.
«È una candela che è rimasta per chissà quanto tempo negli scaffali della mia libreria: uno dei momenti più emozionanti dello spettacolo, che non sarà solo un concerto anche se senza le canzoni dei Cccp/Csi non esisterebbe, dovrebbe essere quello in cui vedremo quel Vladimir Ilic sciogliersi come si è sciolto il comunismo e i nostri sogni/bisogni».
Perché partire da Napoli?
«Perché è capitale di moti e insurrezioni, dalla Repubblica del 1799 alle Quattro giornate, fino ai giorni nostri. Perché è la capitale della musica in Italia, magari insieme al nostro triangolo Modena-Bologna-Reggio Emilia. Perché Lenin passò di qui per i suoi due unici soggiorni italiani, nel 1908 e nel 1910, quando andò a Capri cercando inutilmente di fondare un fronte unico bolscevico con Maksim Gorkij. E a Capri c’è uno dei due monumenti, una stele, che ricordano Vladimir Ilic nel Belpaese: l’altro, inutile dirlo, è dalle mie parti, un busto, in piazza Lenin, a Cavriago».
Affinità e divergenze sul progetto con gli altri ex Cccp/Csi come Ferretti e Annarella? Ha provato a coinvolgerli? Quali materiali di quel periodo riprenderete?
«Non era operazione per loro, qui serve il centralismo democratico: decido io. Eviteremo i pezzi più privati, come “Mi ami?” o “Io sto bene”, per affondare nell’epopea filosovietica di “A ja ljublju Sssr”, “Live in Pankow”, “Spara Juri”, “Emilia paranoica”. Spero che accanto a combattenti, reduci e nostalgici, in platea non manchino i ragazzi».
© RIPRODUZIONE RISERVATA