I Wire ad Avellino: «No a nostalgie punk, l'importante è evolversi»

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di Federico Vacalebre
Mercoledì 3 Ottobre 2018, 12:12 - Ultimo agg. 12:14
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Nei giorni riottosi («I wanna a riot, a riot of my own») del punk il suono di quei primi tre album «Pink flag» (1977), «Chairs missing» (‘78) e «154» (‘79) entrò nelle orecchie, e nel cuore, di molti, segnando la maturazione del movimento e, nello stesso tempo, il suo superamento, la sua evoluzione. Mentre impazzava la blasfema trinità britannica formata da Clash, Sex Pistols e Damned, la band di Colin Newman preparò l’approdo al post punk, la transizione all’art punk, la trasformazione new wave, l’ingresso dei synth accanto alle chitarre elettriche grattate a sangue, la voglia di sperimentare senza onanismi, la capacità di dire in breve («Field days for the sundays» durava appena 28 secondi) quello che aveva da dire, di essere fulminante, distorta e velenosa, ma non per questo veloce quanto imponeva la voglia di scatenarsi nel pogo.

Nelle notti riottose («I wanna a riot, I riot of my own») del punk nessuno avrebbe nemmeno sognato un concerto dei Wire a Napoli, periferia dimenticata dagli eroi già allora giurassici del rock ma anche dai giovani ribelli. Nemmeno oggi, che il gruppo si è più volte sciolto e riformato, confermando di essere in forma con «Object 47» (2008), «Red barked tree» (2011). «Change become us» (2013) e «Silver/lead» (2017), e che sabato si esibirà ad Avellino, su invito dell'associazione Fritz, nell’auditorium del Cimarosa, un conservatorio meno chiuso alla modernità di quello partenopeo, come dimostrerà anche il coinvolgimento nell’evento delle classi di musica elettronica del dipartimento di Nuove tecnologie e linguaggi musicali.

Oggi il gruppo è formato dal fondatore e chitarrista Colin Newman, dal bassista Graham Lewis, dal batterista Robert «Gotobed» Gre e dal tastierista Matt Simms.

Che scaletta dobbiamo aspettarci per sabato, Colin?
«Un po’ di materiali storici, un po’ di pezzi degli ultimi album e... alcune novità».

In che senso?
«Siamo in studio di registrazione per lavorare all’album che uscirà l’anno prossimo, qualche pezzo è già pronto, potremmo sperimentarlo dal vivo, è una formula che ci piace, che ci permette di vedere le reazioni del pubblico di fronte al brano, ma anche le nostre».

Quella di Avellino è l’unica data al Sud del vostro breve tour italiano. Molti verranno a vedervi cercando le icone del punk che non siete più, ammesso che lo siate mai stati.
«Malcom McLaren parlò di quel bluff inglese come della più grande truffa del rock’n’roll, in America Patti Smith e William Burroughs, i Pere Ubu e Tom Verlaine usarono quella corrente artistica che dirci come era marcio il mondo. Noi non siamo mai stati punk, ma nemmeno qualsiasi altra cosa. Eravamo giovani ed arrabbiati e vogliosi di fare musica, ora siamo sessantenni arrabbiati e vogliosi di fare musica».

Che musica volete fare, Graham? Come cambierà la vostra direzione dopo «Silver/Lead» con l’inatteso ottimismo di «Diamonds in cups» o il puro pop di «Short elevated period»?
«Non lo so, non lo sappiamo. Non so che musica facevano i Wire prima che io entrassi, o che musica stiamo facendo. So che dentro di noi e dentro le nostre canzoni ci sono mille sound e mille influenze, che per noi conta solo sviluppare le nostre idee, produrre musica che sia contemporanea e non nostalgica».

D’accordo, Colin?
«Certo, in fondo, il vero punk fu più un’attitudine che un suono, uno stilema, un genere. Jon Savage ci definì “off punk” e forse aveva ragione. Non abbiamo mai voluto trasformare in ortodossia l’assalto al cielo». Non siamo mai stati veloci abbastanza da invitare al pogo, o se lo eravamo finivamo troppo presto, come un coito interrotto. Non abbiamo mai invitato al “singalong”, abbiamo sempre badato al quadro e non alla cornice».

Insomma siete stati e restate «diversi», non allineati, nemmeno al punk e al post-punk.
«Non puoi definirti diverso, devi essere diverso, suonare diverso.

Ascoltateci e giudicate».

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