Capossela e le «Canzoni della cupa»: un canto libero e folk tra polvere e ombra

Vinicio Capossela
Vinicio Capossela
di Federico Vacalebre
Venerdì 6 Maggio 2016, 15:49 - Ultimo agg. 16:15
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Nel mondo con l’orologio, quello «normale», «Canzoni della cupa» è stato presentato ieri, nell’albergo diurno Venezia, dimenticato da anni nel sottosuolo di Milano e recuperato da giovani volontari. Nel mondo senza orologio sarà presentato domani alla stazione ferroviaria dismessa di Conza-Andretta-Cairano, zona dove il doppio album di Vinicio Capossela è stato concepito, si è concesso una gestazione pluridecennale e, finalmente, è venuto alla luce ben «sponzato».
Un primo cd fatto di «Polvere», lacerti della tradizione folk italiana, dalla terra dei Coppoloni al Salento, dal Calitrishire alla Sardegna, dall’Irpinia interna ad Apricena. Al centro di tutto, «come un aedo popolare, come un venerato cantastorie, maestro con la chitarra e per questo più caro e affidabile, Matteo Salvatore». Un secondo cd fatto di «Ombre», arrangiamenti più originali e caposseliani per storie di mostri, arcani misteri, creature mitologiche, cunti cantati nelle tenebre.
Vinicio, meridionale nato ad Hannover, ci riporta in «un luogo di polvere e di ombra in cui ogni oggetto rimanda a una diversa fruizione del tempo», ci rimette di fronte un suono di cui spesso ci vergogniamo, scavalcato dalla modernità pallida e assorta di cui siamo prigionieri. La polvere concreta e le ombre leggendarie evocate formano un lavoro su «un bene comune», una riflessione sulla memoria e la reinvenzione culturale, una resistenza che non si fa ode alla decrescita felice, ma inno bacchico al Sud magico, ballata sospesa tra De Martino e Lomax.
Il segreto, nei brani ereditati e in quelle scritti ex novo, sta nell’affrancarsi dalla dittatura del tempo, dell’orologio. A Milano serve andare sotto terra, nella terra dei suoi genitori basta mettersi sui binari dismessi, entrare nell’ombra e nel mistero a cui conduce qualsiasi cupa, qualsiasi stradina buia e misteriosa: «È come una porta che ci riconduce in quella che gli antropologi chiamavano la cultura della terra, tra meraviglia e inquietudine, destino ineluttabile e lotte titaniche, fatica e baccanali, campagna e vino, uomini tutti fatica e donne tutte sesso o tutte chiesa, soprusi e ingiustizie, sacro e profano, filastrocche infantili e la lingua aguzza di pietre di Matteo Salvatore». Poi ci sono le creature mitologiche come «Il Pumminale», sorta di licantropo natalizio e «versopelo», ovvero con il pelo dentro, che all’apparire della luna si trasforma in un porco.
L’inizio del progetto «risale al 2003, a Cabras, golfo di Oristano, landa impolverata come quelle della mia famiglia. Poi l’ho messo da parte, l’ho ripreso, l’ho abbandonato, finalmente è arrivato il suo momento: come la natura, rispettando le stagioni della creatività, maturando, sbocciando, regalando con i suoi rami ombra alla polvere». I sommi folksinger Guthrie e Dylan sono un’ispirazione primegenia, amplificata poi dalle mangiate di cannazze divise con la Banda della Posta, e da collaborazioni che sul primo disco confermano il suono folk, nel secondo lo forzano in direzione neofolk o postfolk ai confini tra Texas e Messico o di altre frontiere dello spirito: si va da Giovanna Marini ai Calexico, da Antonio Infantino ai Los Lobos, da Flaco Jimenez a Howie Gelb. Anche dal vivo il disco vivrà le sue due distinte facce: trombe e tamburi per gli spazi aperti (la polvere) e violini, strumenti del diavolo per definizione, al chiuso (l’ombra). Allo Sponz Fest irpino, 22-28 agosto, l’apotesi che tutto terrà insieme, anche le cannazze e l’aglianico, con preferenza per l’arcaico linguaggio popolare: «Il tema di quest’anno parla chiaro: chi tiene polvere spara».
Risuoneranno nel Calitrishire «i canti di lavoro delle raccoglitrici di tabacco, il lamento dei vagabondi, il western rurale della donna pazza per amore, l’ode a Franceschina la “puttanazza”, i proverbi paesani, l’urlo del mietitore...».
I caposseliani d’osservanza preferiranno i suoni più complessi e compressi, più da rock del deserto, da blues delle terre desolate, del secondo album, lo spessore più armonico, la forma canzone più (de)strutturata, la capacità di esplodere in un urlo, di inseguire la costruzione di un sabba ritmico/psichico. Ma l’incipit gramscianamente nazionalpopolare ha il fascino scomodo della memoria risvegliata prima che sia troppo tardi, prima di scomparire sulla collina di Spam River, «dove le nostre vite sono accidenti digitali pronti a finire nel cestino destinato ai disturbatori», conclude Vinicio, lo chansonnier paesano e paesologo, sudista e sudato, verace e internazionalista, che in «L’acqua della chiara fontana» rilegge una ballata d’ispirazione semitrobaddorica che a Calitri ha la forma del sonetto «Il nobile cavaliere», ma che già conquistò sotto altre spoglie Brassens e poi De Andrè. Storie folk, da canzone popolare.
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