Le Luci della Centrale Elettrica
e la nuova «Terra» dei cantautori

Vasco Brondi
Vasco Brondi
di Federico Vacalebre
Domenica 5 Marzo 2017, 18:01
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In tempi di nuove geografie cantautorali, di mappe che rimettono al centro del mainstream e dell’immaginario giovanile una figura che sembrava essersi fatta desueta, Vasco Brondi si erge forse come il capostipite di quella generazione che ora raccoglie i frutti di una semina che lui - e altri pochi, da Dente e Brunori, hanno azzardato. Dopo aver cantato «L’amore al tempo dei licenziamenti dei metalmeccanici», dopo essersi chiesto «Cosa racconteremo di questi anni zero», dopo aver partorito l’ossimoro esistenziale di un «Punk sentimentale», ecco lo chansonnier che si fa chiamare Le Luci della Centrale Elettica tornare con i piedi per «Terra», come da titolo del nuovo album, che presenterà alle 17 alla Feltrinelli di piazza dei Martiri.
Produzione di Federico Dragona dei Ministri, in copertina la land art di Ugo Rondinone, il cd si presenta come «il disco etnico di un’etnia immaginaria, che assomiglia a quella italiana contemporanea», spiega Brondi. Un’etnia così immaginaria ma così verosimile da risuonare nelle parole del «Waltz degli scafisti» tra «una città cinese in Africa», «una città italiana in Argentina», o ancora «una indiana in Australia», o «una base americana sulla luna». Nei suoni l’altro Vasco tiene insieme Balcani e Africa, ritmi arabi e melodie italiane, distorsioni soniche e canti religiosi a far da cornice al suo cantare che spesso si fa talkin’, ai suoi testi spudorati e per questo generazionali («ho iniziato che avevo 23 anni, ora ne ho 33», ricorda lui», «ho un pugno di dischi e centinaia di concerti alle spalle, ora vengono a sentirmi anche migliaia di spettatori»), ai suoi versi spiazzanti come una cicatrice «A forma di fulmine», come l’arrivo del futuro («Qui»), come un «Coprifuoco» in una metropoli europea al tempo del terrorismo musulmano: «Il giorno degli attentati hai scritto/ per tranquillizzare tutti/ che come sempre eri da quelle parti/ ma non eri tra i feriti o tra i morti», canta Brondi con la feroce tenerezza di un cantastorie dei giorni nostri, pronto a chiedersi «cos’è che ci ha fatto inventare/ la torre Eiffel, le guerre di religione/ la stazione spaziale internazionale/ le armi di distruzione di massa e le canzoni d’amore».
Lui, però, nelle canzoni - che guardano a De Gregori e Lolli, Ferretti e Battiato, Jovanotti e Rossi - canta lo spaesamento della ragazza che torna a casa «Nel profondo Veneto», «sconfitta nella gara all’autoaffermazione, vincente nella sfida del trovare l’altra se stessa possibile». La militanza non è nemmeno più un ricordo, al massimo un’ombra, un rigurgito. E la tecnologia è la religione oppio dei popoli «Iperconnessi»: alla ricerca «di un posto dove il wi fi non arriverà mai» Le Luci della Centrale Elettrica si accendono su una riflessione: «I grandi rivoluzionari avevano vent’anni, oggi a vent’anni spari parolacce contro qualcuno in un post e poi... ti ritrovi adulto, senza averla nemmeno sognata la rivoluzione». «Chakra» è l’altra faccia dell’«Occidentali’s karma» di Gabbani, «Moscerini» l’altra faccia di «La fine dei vent’anni» di Motta, «Stelle marine» una love story in una «notte di disordini e sentinelle».
Probabilmente sarà successo, classifica, un tour affollato, probabilmente dietro l’exploit del già citato Motta, de ICani, di Calcutta, magari anche dei Thegiornalisti c’è (anche) il lavoro di Brondi: «Finalmente in Italia c’è meritocrazia e i mass media hanno scoperto chi riempie club, teatri, piazze», riflette lui. «Per un po’ hanno creduto esistessero solo i reduci dei talent show, quelle produzioni ricchissime che però poi si trovavano di fronte non più di 50-60 paganti a sera. Le radio iniziano a passarci, i giornali a scoprire che esistiamo anche noi che non veniamo dai talent, dalla discografia ufficiale, ma dal paese reale». La canzone d’autore è ritornata sulla «Terra»?
 
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