Pat Metheny torna a Napoli: «Con Pino Daniele progettavamo una nuova tournèe»

Pat Metheny torna a Napoli: «Con Pino Daniele progettavamo una nuova tournèe»
di Federico Vacalebre
Martedì 14 Giugno 2016, 14:29 - Ultimo agg. 14:43
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Sino a qualche tempo fa, non passava anno senza che le sue chitarre, e le sue magliette a strisce, si facessero vedere al Palapartenope, per l’ennesimo sold out. Poi la storia d’amore tra Napoli e Pat Metheny si è fatta meno solida, più episodica, ma non si è mai interrotta come l’uomo di Lee’s Summit, Missouri, cercherà di confermare il 12 luglio, quando lo vedremo all’Arena Flegrea con un gigante del jazz come Ron Carter, settantanovenne contrabbassista applaudito, tra l’altro, al fianco di Miles Davis, Herbie Hancock e McCoy Tyner.
Partiamo proprio da qui, Pat? Dalla sua lunga storia d’amore con Napoli?
«Volentieri. L’epoca d’oro di questa passione contraccambiata risale tra il 1981 e il 1996. Se guardo indietro nel tempo devo confessare che in quel periodo non vedevo l’ora di tornare, i concerti al teatro tenda rimangono tra le cose più belle della mia carriera: la folla era straordinaria, attentissima alla musica, sintonizzata con quello che succedeva sul palco come mai mi era successo altrove. A ogni disco e a ogni tour non vedevo l’ora di esibirmi a Napoli. Poi le cose sono cambiate, sono cambiato io, è cambiato la città, ma io la amo ancora e... vediamo lei come mi accoglierà stavolta».
Sarà in compagnia di Ron Carter. Che concerto proporrà?
«Ho passato la mia vita ad ascoltare Ron: con chiunque abbia lavorato lui è stato capace di non rinunciare alla sua identità portando un contributo che facesse la differenza. Vorrei restituirgli tutto questo. Suonare in duo è una cosa che mi è sempre piaciuta. Penso a “Beyond the Missouri sky” con Charlie Haden: con Carter è una cosa diversa, ma come quella speciale e affascinante, diversa da ogni altro show».
Non sarete solo voi due, però, sul palco.
«No, ci sarà anche un fantastico giovane pianista inglese, Gwilym Simcock, che si unisce a noi e che duetta anche con la mia chitarra».
Dal Pat Metheny Group a Ron Carter, passando per Ornette Coleman, Brad Melhaud e molti altri: quanto è importante per lei cambiare compagni di session e sound?
«Cambiare vuol dire avere nuove possibilità, nuovi orizzonti. E, con chiunque mi misuri, io cerco sempre di dare il meglio. Anche, come successo non molto tempo fa, se devo suonare “Happy birthday” ad una festa per bambini: mi sono preparato a dovere e poi ho dimenticato tutto per suonare e divertirmi».
Oltre a Carter e Haden lei ha incontrato i più grandi bassisti del mondo, da Jaco Pastorius a Steve Swallow passando per Christian McBride.
«Sono stato fortunato. Il basso definisce il suono di una band e loro mi hanno dato garanzia di suono e creatività, di ritmo, ma anche la certezza che sapevano ascoltare: è la condizione principale per fare grande musica insieme».
Parliamo di «The unity sessions»?
«Chris Potter, Ben Williams e Antonio Sanchez sono musicisti speciali, insieme abbiamo fatto due dischi e centinaia di concerti in giro per il mondo: sono una delle migliori, e più divertenti, band che io abbia mai avuto. Nei due giorni di registrazione di “The unity sessions” abbiamo raccontato la nostra evoluzione come insieme, per questo sono felice che oltre al cd esista il dvd».
Da poco è uscito anche il disco dell’incontro con il trio di Cuong Vu. Le sue collaborazioni sembrano infinite. Che cosa ricorda di quella con Bowie?
«Avevo scritto “This is not America” come tema per la colonna sonora di “Il gioco del falco” di John Schlesinger. Ero stato a vedere Sean Penn e Timothy Hutton girare alcune scene in New Mexico e, tornato a casa, avevo composto il pezzo di getto. Poi, lavorando alla colonna sonora, il regista mi suggerì di collaborare con David per trasformare il brano strumentale in una canzone. Non lo conoscevo bene, in quel periodo ero concentrato sulla mia musica, su Bach, su Charlie Parker, su Coltrane, su Roy Haynes. Non ero interessato al pop, ma andai a comprare alcuni suoi dischi e mi dichiarai subito un suo fan: era la persona perfetta per l’idea. Il batterista del mio gruppo dell’epoca, Paul Wertico era anche più eccitato di me. Fu un’esperienza importante per me».
E Pino Daniele? È vero che dopo il tour in coppia del 1995 stavate preparando un altro giro di concerti insieme?
«Sì, volevamo tornare a far sposare le nostre chitarre. Pino era innanzitutto una splendida persona, ci divertivamo un mondo. Non ci vedevamo molto, ma stavamo sempre in contatto tramite amici comuni. La tristezza per la sua scomparsa mi pesa ancora, era un ambasciatore della musica napoletana, e italiana, nel mondo».
A Napoli ha un altro amico, Onorato.
«Antonio è un tipo a posto, mi ha seguito dagli inizi ed a mia volta l’ho visto crescere sino a diventare il chitarrista che è adesso».
Nuovi progetti?
«Ho appena scritto una piece di 35 minuti per il Los Angeles Guitar Quartet, il miglior quartetto di chitarra classica del mondo. Ma ho diverse altre cose in preparazione: restate sintonizzati».
 
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