Lanzetta: «Non canto ma questo è il mio sound»

Peppe Lanzetta
Peppe Lanzetta
di Federico Vacalebre
Giovedì 22 Giugno 2017, 17:14 - Ultimo agg. 22:28
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Era dai tempi dalla scuola, da quando andava al Diaz con Pino Daniele e faceva filone appena possibile per scappare a Roma a vedere il primo concerto rock possibile. Era dal tempo in cui iniziò a farsi notare in tv nei panni di «Sergio la voce di Napoli». Era dal tempo di «Roipnol», delle vite postdatate come gli assegni, del Bronx napoletano che raccontava Gomorra prima che Saviano la chiamasse così. Era da quando lasciò la banca per vestire i panni del Lenny Bruce vesuviano. Era, insomma, da sempre, che Peppe Lanzetta, il papà di tutti i narratori crudi newpolitani, l’inventore della pulp fiction verace, sognava - anche se lui assicura il contrario - di fare il rocker, lo chansonnier, il James Brown di Piscinola, il Peppino Brio punk, il Bukowski dell’Asse Mediano. L’unica sorpresa di un disco come «Non canto, non vedo, non sento», che sarà presentato alle 18 alla Feltrinelli di piazza dei Martiri, è che arrivi solo adesso, dopo tanti anni, dopo i testi scritti per Edoardo Bennato, Tullio De Piscopo e James Senese, gli spettacoli di teatro-canzone, gli abbozzi di musical napulegni, la collaborazione discografica con gli Almamegretta.

Lui, però, minimizza, sottolinea «il Moog alla Joe Vescovi dei Trip, le chitarre latine alla Santana, anzi alla Pinotto», parla del suono con cui Jennà Romano dei Letti Sfatti ha messo in musica «versi, abbozzi di versi, lacerti di versi. Erano 6-7 anni che avevamo questo materiale, da 15 anni aspettava di vedere la luce la mia collaborazione con Battiato, alla fine... tutta questa roba è diventata un disco, una testimonianza per i posteri, ma anche un unicum, lo prometto, altrimenti mi vattono».
 

 

Rock nel midollo, Peppe svicola: «Provo pudore a parlare del mio cd, non è il mio campo, e se - con tanti amici musicisti - non ho mai imparato a suonare uno strumento è perché conosco i miei limiti e i miei talenti: la mia arma è la penna, la scrittura. Anche qui, quello di cui sono orgoglioso sono certe liriche vajasse, certe parole che diventano canzoni di rabbia e di amore, per dirla con Cohen, anche se i miei ‘”beautiful losers” erano e sono molto meno eleganti dei suoi». La scrittura che diventa - ritorna? - orale, spiega Lanzetta, «mi fa fare pace con una parte di me che era in credito». Il suo rapporto con la canzone, con la musica, con i dischi, ridacchia, «era da fans, da collezionista di emozioni. Sapevo e so a memoria le formazioni di band sconosciute degli anni ‘60. C’era un impresario di Palermo che aveva deciso di non pagarmi la serata, ma poi mi saldò all’istante solo perché avevo citato un cantante dimenticato come Mariolino Barberis. Ancora adesso mi telefona e ci lanciamo in conversazioni surreali. Lui mi dice: Connie Francis. E io rispondo: Donatella Moretti».

Più talkin’ che canto, più amaro che dolce, più ragù che kebab, più orgogliosamente trap(pano) che rap, voce di dentro di una Napoli città sin troppo aperta dove Giulietta Sacco incontra zia Ti(ti)na Turner, l’album pubblicato dalla Full Heads è inclassificabile, variegato come l’opera di un narratore che è anche attore che è anche regista che è anche poeta urbano che è anche un rockettaro svezzato dai Festival di Napoli, o forse un veteromelodico illuminato dai Cream. «Arriverà», scritta e divisa con Franco Battiato, è un’ode arrabbiata alla primavera mai vista, al rinascimento mai vissuto. «Valle Giulia» è la conclusione pasoliniana, politicamente scorretta, fieramente dalla parte dei ragazzi, e delle ragazze, di vita, con e senza divisa, soprattutto se innamorati. «Blues capille ‘nfuse», scandisce Peppe in «Alla quale», omaggio-oltraggio alla generazione del neapolitan power, la sua, al fratello-coltello James Senese, al suo sax, ai suoi ricci, alla sua pelle nera come la nostra anima, alla sua anima candida come la nostra pelle. È il momento più vero di un disco che nei suoni prova inutilmente a smussare gli angoli di un poeta scomodo, persino per se stesso, disposto a divorare la propria leggenda metropolitana come il Rimbaud finito a fare il mercante di armi, e poi a inverarla subito dopo con una dichiarazione di amore ciampiano (in principio era Piero) intonando «Tu no» come sarebbe piaciuto al principe Lombardi, uno dei primi a credere in lui, a dividere champagne e bagarie nelle notti di un night così provinciale da essere cosmopolita, perfetto per vivere un «Ammore che nun pareva ammore»

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