Gragnaniello: «Mi chiamavano Viento 'e terra»

Enzo Gragnaniello
Enzo Gragnaniello
di Federico Vacalebre
Venerdì 24 Febbraio 2017, 21:33
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Il titolo, «Neapolis mantra», è preso in prestito da un suo album del 1998 in cui da cantautore metteva da parte le parole per farsi sciamano, indiano delle riserve metronapoletane. E, per assonanza, potrebbe diventare «Neapolis magma» in un prossimo progetto, perché «non c’è niente di più vulcanico di una voce di tufo». Enzo Gragnaniello si racconta così anche se, nel concerto del 14 marzo all’Augusteo, azzarderà un’autodefinizione in forma di ballata.
Tra le sorprese della serata ci sarà un inedito, «Lo chiamavano Viento ‘e Terra».
«Per una volta scelgo una struttura narrativa e, sia pur in terza persona, racconto me stesso, o, almeno, una parte della mia vita».
«Addo’ passava cadevano ‘nterra/ tutte ‘e bidune d’’a spazzatura/ fora a sti vasce/ fora ‘e purtune», l’incipit. È la storia di uno scugnizzo precoce, di un mariuncello che si ritrova barbone a Milano, che finisce in carcere, che viene salvato da una chitarra e dalla voglia di cantare la sua terra, anche se finisce per scrivere «’e canzone pa’ genta sua/ ma ‘a genta sua nun riesce a capi’».
«Sono io quando combinavo i guai, come in un film, anzi in un cartone animato, ne ho parlato con Luciano Stella della Mad Animation, potremmo tirarne fuori un corto invece del solito videoclip».
Torniamo ai mantra napoletani.
«La new age non c’entra nulla, è qualcosa che faccio da bambino, quando mi accompagnavo con le buatte del salumiere. Mi piace usare il fiato senza badare alla vanità del cantautore, senza passare dai filtri della razionalità. È un canto di cuore, è suono, è significante che non ha bisogno del significato, è emozione diretta, pura».
In fondo è quello che trovano nel repertorio gragnaniellano artisti come Tom Waits o Bill Laswell, folgorati dal suono più che dalla comprensione dei versi, almeno prima di farseli tradurre.
«Laswell remixò proprio uno dei pezzi di quell’lp del ‘98, Waits lo incontrai al Premio Tenco del 1986: c’era il gotha del cantautorato italiano in fila per incontrarlo, ma Tom, mi spiegò Benigni, voleva sapere solo di me, era rimasto stregato dal mio canto da orco vesuviano. Mi abbracciò a lungo, mi invitò a casa sua e io, sciagurato, quando andai in America nemmeno lo cercai».
In compenso per il live all’Augusteo hai cercato Dulce Pontes.
«Ha una voce straordinaria, che va ben oltre il fado. Divideremo quella “’O mare e tu” che incise con Bocelli, poi siederà al piano e... Io e Dulce saremo due onde mediterranee che si incontrano, si scontrano, inventano un nuovo ritmo. In scena con la mia band guidata dalle chitarre e le mandoline - proprio così: al femminile - di Piero Gallo, ci sarà anche un quartetto d’archi con Erasmo Petringa al violoncello. In scaletta mantra, le mie canzoni, ma anche classici come “Passione”».
Hai scritto la colonna sonora di «Veleno», intanto.
«È un film di Diego Olivares sulla terra dei fuochi con Luisa Ranieri, Massimiliano Gallo, Miriam Candurro, Salvatore Esposito».
 

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