Gigione, il sagrautore delle Twin Peaks d'Italia

Gigione, il sagrautore delle Twin Peaks d'Italia
di Federico Vacalebre
Domenica 14 Gennaio 2018, 11:14 - Ultimo agg. 11:38
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Se qualcuno si aspetta un banale, quanto inevitabile, elogio del trash potrebbe rimanere sorpreso. «Essere Gigione», docufilm di Valerio Vestoso sull'Elvis delle sagre strapaesane già al centro di polemiche per il contributo ministeriale concesso in quanto «progetto di interesse culturale», ha dentro di sé gli anticorpi al sex appeal dell'inorganico, come in una sorta di «Twin Peaks» della nostra provincia profonda, così lontana dai riflettori da risultare una scoperta ben più di Luigi Ciaravola, in apparenza l'oggetto del documentario che sarà nelle sale da giovedì 18, a Napoli all'Hart, a Casoria e Marcianise nelle sale del circuito Uci, poi a Benevento, Avellino...

Per quei pochi che ancora non conoscono il signore della «Campagnola», lo Springsteen di Boscoreale, lo stakanovista della canzone sacro/sporcacciona, il baciapile a luci rosse, Vestoso lo mostra dominare i palchi delle sagre «tra il doppio senso e la devozione, il bene e il male. Ai suoi piedi, accecato dalle luci e dal miraggio di una felicità spicciola, il popolo di seconda mano, mai alla ribalta nazionale perché reo confesso del più grande peccato del secolo, la semplicità». Gigione non è distante da Rovazzi, non fosse che la sua fanbase va dai bambini agli anziani, attecchisce nelle metropoli solo in nicchie snob di adoratori della trivial song, ma dilaga nella provincia che il 4 marzo stabilirà chi governerà l'Italia al tempo delle fake news.
 


Quelle su Gigione, sulla cresta dell'onda dagli anni Ottanta/Novanta, non sono fake news, anche se lui ingigantisce ogni cosa che fa, la moltiplica per dieci, ed appare alquanto sconcertato a fine film quando una serata a Zurigo non richiama le folle attese. Vestoso evoca un suo imminente ritiro, data l'età, 71 anni. E fa dire a un telegiornalista che lo conosce bene che difficilmente, a quel punto, i figli Joe Donatello e Menayt (nomi d'arte che sono un programma), riusciranno a continuare la leggenda del «sagrautore»: problema di carisma. Colpito dalla fama di Gigione, il trentenne regista beneventano (con esperienze nei corti come in teatro oltre che nei video del fintoneomelò Savastano) ha condotto una sorta di esperimento sociale: «Recatevi in un qualsiasi paesino campano, abruzzese, molisano, lucano, laziale, e fate girare voce che l'indomani nella piazza centrale si esibirà Laura Pausini. Non si presenterà nessuno. Se, però, dite alle stesse persone che tra una manciata d'ore ci sarà un concerto di Gigione in pochi minuti la gente occuperà la piazza, mandando in tilt le strade collaterali straripanti di auto in coda. Almeno dieci bancarelle di souvenir, zucchero filato e frittura di pesce si disporranno lungo il perimetro che circonda il palco, sicure di guadagnare bene».

Gigione e Vestoso ci portano, insomma, nell'Italia che l'Istat non conosce. Ciaravola come Malkovich? Anche meglio, perché lui non interpreta, ma scolpisce addosso a se stesso un repertorio che nessun altro ha il coraggio di tenere insieme: un po' messia e un po' mistificatore, passa da «'O ballo d''o cavallo» a «Grazie padre Pio» incrociando Madonna («Lake a prayer» diventa «Toccami») e la Madonna di Fatima come non sarebbero riusciti a fare nemmeno gli Squallor o Leone di Lernia: «Sesso e religione sono la base della sua produzione», spiega Vestoso, «ridotti a minimo comun denominatore dell'esistenza del Belpaese interno, simulacri di un divertimentificio che, lontano dal glamour, ha i volti deformati della piazza in festa. Baluardo di socializzazione comunitaria che tiene insieme i tempi del santo patrono con quelli dei social network».
 
170 serate all'anno, 700.000 spettatori (non paganti) a stagione, un meganegozio di strumenti a Boscoreale, milioni di dischi venduti (in piazza si intende) quando i dischi si vendevano, imprenditore di sé stesso, berlusconiano nella capacità di capire che cosa richiede l'Italia mai a la page, Ciaravola, ex Gigione dei Marines, punta dritto al cuore ma anche a qualcosa d'altro. Conosce l'arte della semplicità e quella della semplificazione come un Casadei postmoderno e sudista che poco bada ai virtuosismi sonori: un giro di basso per far ballare, un po' di tunz tunz da discoteca tamarra e due parole che possano alludere a un qualsiasi atto sessuale; poco importa se poi lo intoneranno anche i bimbi, tra fidanzati, viticultori e nonnette, tutti uniti nel coro della «Campagnola» con «chella cosa a fora».

Unico neo di «Essere Gigione» l'assenza del racconto di com'è nato il fenomeno, i primi dischi, lo sdoganamento nel «Costanzo show», l'importanza e (la persistenza) delle tv locali... Materiale per un secondo docufilm intitolato «Diventare Gigione»?
 

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