Gianna Nannini, nuovo album a 70 anni: «La canzone italiana? Vive solo a Napoli»

«Mi piace cambiare, avere nuovi stimoli, ma anche restare Gianna Nannini, ballando sul filo spinato come dico in un pezzo»

Gianna Nannini
Gianna Nannini
Federico Vacalebredi Federico Vacalebre
Venerdì 22 Marzo 2024, 07:00 - Ultimo agg. 18:33
5 Minuti di Lettura

Il 14 giugno Gianna Nannini compie 70 anni, ma davvero non ha nessuna voglia di mettersi in pantofole. Così prepara un tour europeo in cui presentare il suo nuovo album, accompagnato da un film, con lo stesso titolo, sia pur graficamente rimaneggiato. Quello di uno dei suoi maggiori hit.

Perché chiamare un disco nuovo come un brano vecchio, per quanto clamorosamente bello e famoso, «Sei nell'anima»?
«Perché all'inizio volevo fare un disco di cover soul, mettere mano al canzoniere Motown: ho iniziato con “America”, sono passata dal rock-blues a suoni rock melodici, volevo completare il mio viaggio. Ma ottenere i diritti per tradurre quel repertorio era complicato, così ho archiviato il progetto ed ho fatto un disco di soul dei giorni nostri, alla mia maniera, collaborando con gente del calibro di Andy Wright, Troy Miller e Raül Refree».

Il produttore di Rosalia.
«Già, lui ha reinventato la musica latina, in Italia non siamo ancora riusciti a ripartire dalle nostre tradizioni, dalla Calabria, dalla Puglia, da Napoli, dalla tarantella, dalle tammurriate. La canzone italiana esiste solo grazie ai napoletani, ieri come oggi».

E il soul?
«Io devo sfidarmi, devo superarmi.

Il soul è nell'anima, anzi vuol dire proprio anima».

Però tutto inizia con un clamoroso pezzone rock, «1983», scritto con l'antico sodale Mauro Paoluzzi, in cui ti definisci «vittima e carnefice», «buio e luce».
«Il 1983 è l'anno della mia nascita».

Oddio, ma sei del 1954.
«Il testo dice: “La morale della storia è che c'è sempre alternativa, la morte è obbligatoria, ma l'età è facoltativa”. Il 1983 è l'anno della mia ri/nascita».

Che cosa successe in quell'anno fatidico?
«Mi bloccai. Nel bel mezzo della scrittura di “Fotoromanza” non mi veniva più niente: parole, note, voce, sogni, voglia... Ero sotto pressione, ho dovuto risalire la china, anche il film racconta questo, le paranoie che mi attanagliavano, il chiarore in fondo al tunnel oscuro».

Le discese ardite e le risalite, il rock ed i violini. Ma cosa c'è nel film di Cinzia Th Torrini che uscirà in maggio?
«Si ferma al 1983, racconta la mia storia fino a quel punto. Letizia Toni, l'attrice che mi interpreta, è toscanissima e perfetta. Anche lei è nell'anima, se non sei nell'anima non sei da nessuna parte».

«Sono nata senza genere», canti ancora in quel primo brano.
«Sì, e non parlo di generi musicali».

E pensare che agli esordi ti misero in un disco di tutte colleghe, di cui poi si sono perse le tracce: Donatella Bardi, Roberta D'Angelo, Nicoletta Bauce... Lo intitolarono «Le cantautore».
«Non sapevano nemmeno come chiamarci, volevano intercettare il boom della canzone d'autore, tutta maschile, tanto per cambiare».

Il film è tratto dal tuo libro autobiografico «Cazzi miei», ora ristampato con titolo aggiornato. Poi in novembre verrà il tour europeo. Il disco è ispirato, al soul aggiunge melodie piene, ai vecchi collaboratori (Matteo Saggese, Pacifico, lo stesso Paoluzzi) si alternato nomi nuovi come Zef o Jacopo Ettorre.
«Mi piace cambiare, avere nuovi stimoli, ma anche restare Gianna Nannini, ballando sul filo spinato come dico in un pezzo».

Quel testo sembrerebbe parlare di un amore molesto.
«Sì, quando l'amore diventa tossico bisogna andare via, non si può essere legati dal filo sbagliato, il filo spinato».

È quello il filo che porta anche al moltiplicarsi dei femminicidi?
«Forse c'è anche un problema di emulazione, da quando abbiamo coniato la parolina per definire questo abominio i casi non si contano più. Io a 13 anni, quando fui molestata dal maestro di musica, non lo dissi ai miei genitori, non lo denunciai. Per fortuna che poi ho buttato tutto fuori in musica scrivendo “Basta”».

Sei andata a Sanremo per duettare un medley di tuoi pezzi con Rose Villain. Sembravi avere molto voglia di esserci.
«Sì, lei mi piace, cantare insieme è stato bello, ma ho fatto anche una roba vietata, accennando proprio a “1983” che, essendo ancora inedita, non poteva rientrare nel novero delle cover».

Cosa fatta capo ha. «Il buio nei miei occhi» traduce in italiano «I'd rather go blind», una ballatona soul di Etta James ed Elligton Jordan del 1968. È quel che resta del disco di traduzioni soul?
«Sì, una storia di crepacuore, il primo brano ipotizzato per quella scaletta mancata».

Dopo «Silenzio» come singolo è arrivato «Io voglio te». «Lento lontano» è un gospel.
«Sì, il mio pezzo preferito del disco».

«Mi mancava una canzone che parlasse di te» chiude il disco con una voce e una chitarra.
«Chitarra catalana, quella di Refree, lui le radici del suo popolo le ha riscoperte, noi non ancora. Mi ricordo il tour del 1990 con la tammorra di Franco Faraldo della Nuova Compagnia di Canto Popolare. La canzone italiana è morta dai tempi di Alan Lomax, del primo Festival di Sanremo, quando ha rinunciato alla ricchezza dei suoi dialetti, delle radici regionali. Certo abbiamo avuto l'opera, e oggi rapper e trapper hanno riconquistato l'attenzione alla parola, ma con la musica ancora non ci siamo».

Nel testo del pezzo conclusivo citi Baglioni? «Siamo un piccolo grande amore».
«Sì, una grande canzone popolare, come il folk. Quando a Raül è venuto quel verso ho chiamato Claudio e gli ho chiesto il permesso. Mi ha detto che non ce n'era nemmeno bisogno».

Un modo per ritrovare la tua anima nordafricana nel tuo disco soul?
«Proprio così».

La penultima canzone, invece, è firmata anche da Giuseppe Faiella: ma è proprio «quel» Giuseppe Faiella?
«Assolutamente sì: Peppino Di Capri. Volevo il suo swing da americano di Napoli. L'ho chiamato e... eccoci qui. Un paio di anni fa era venuto a vedermi a Maiori. Lo adoro». 

© RIPRODUZIONE RISERVATA