Il rapper Ghemon: «Meglio soul
come spiega Pino Daniele»

Ghemon
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Venerdì 29 Settembre 2017, 08:48
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Giovanni Luca Picariello non è uscito dal tunnel dell’hip hop, ma, ormai, è entrato nel tunnel, ancora poco frequentato ieri come oggi, della black music italiana. Se «ORCHIdee» aveva iniziato a mischiare pop, rap, soul, funk e jazz, il nuovo album del rapper avellinese che ha deciso di farsi chiamare Ghemon, «Mezzanotte» trova il filo rosso che collega passato e presente della musica nera.
Domani sei atteso alle 17 dai fan alla Fetrinelli Express di piazza Garibaldi per un firmacopie. Come racconterai questa ulteriore trasformazione? Come spiegherai il tragitto del graffitista partito con il collettivo Kcs (Kella cessa ‘e soreta) diventato a tutti gli effetti un «nu soul brother»?
«Come un percorso che sapevo di dover percorrere, ma che aveva bisogno di essere sperimentato. Diciamo che prima “ORCHIdee» e poi ancor più il tour mi hanno dato la forza di credere in quello che stavo facendo, mentre la band e i concerti davano forma e consistenza alle mie canzoni. Ecco: le prove sono finite, in questo disco faccio sul serio».
Da «Impossibile» a «Un temporale», da «Cose che non ho saputo dire» a «Kintsugi» le anime dell’album sono tante. Parli di depressione, attacchi di panico. Passi dal rap al canto sensual-sessuale, guardi al nu r’n’b, a Lamar, a D’Angelo, Gambino, Cody ChesnuTT con il problema della lingua che ti costringe a qualche cambio d’accento forzato in più. Si può fare black in Italia, in italiano?
«Come Pino Daniele insegna, sì, si può fare. Si può fare funky, r’n’b, una ballata introspettive, una melodia intrisa di blues, un corposo rock soul. Ed è quello che voglio fare io».
Un percorso simile a quello di Neffa, alias Giovanni Pellino di Scafati, tuo corregionale che però con il rap, che in Italia ha contribuito a fondare, non vuole più avere nulla a che fare.
«Sì, ne abbiamo discusso insieme quando stavo partorendo l’album precedente. “Sei sicuro di voler andare in questa direzione?”, mi chiese, quasi gli sembrasse che io volessi tenere due piedi in una sola scarpa. Io non avverto questo problema, credo che Otis Redding e Tupac Shakur siano collegati. Non è difficile che un mc, un dj, un producer, siano anche altre cose, abbiano voglia di suonare davvero con la propria band».
In questo processo il pubblico ti sta seguendo, «Mezzanotte», prodotto da Tommaso Colliva, è stato accolto benissimo. Pronto ad un ulteriore passo verso il mainstream, verso la platea nazionale? Che cosa faresti se Baglioni ti invitasse a Sanremo?
«Direi di sì a patto di trovare il modo di usare l’occasione per raccontare questo mio percorso, per presentare a chi non l’ha mai sentita prima la mia voce e i miei versi e i miei suoni».
Nell’attesa di diventare il Bruno Mars italiano, anche se non tradisci il rap stai lontano dagli stereotipi stradaioli, dal gergo, dal machismo sbruffone.
«Canto l’amore, anche il sesso, ma so che non posso essere diretto come lo sono gli americani, che hanno un’altra cultura. Spesso mi hanno detto che dico cose troppe nude: non ho paura di mettermi allo scoperto, so che l’hip hop usa molto la pancia e non la rinnego, ma non per questo la devo usare».
 

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