Bowie, uno, nessuno e centomila: elogio del camaleonte rock

Bowie, uno, nessuno e centomila: elogio del camaleonte rock
di ​Federico Vacalebre
Lunedì 11 Gennaio 2016, 09:41 - Ultimo agg. 12 Gennaio, 12:33
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“Blackstar” non era il disco del suo ritorno, ma quello del suo addio. La stella nera scelta da David Robert Jones per titolo del suo ventisettesimo, e ultimo, album, era un saluto, era la luce oscura di fine tunnel, era la scelta di non tradire sé stesso, di restare “on the wild star”, rirovando quei suoni jazz e quel sassofono da cui tutto era iniziato.
 


La scomparsa - a pochi giorni dal suo sessantanovesimo compleanno, l’8 gennaio, “festeggiato” con l’apparizione appunto di “Blackstar” celebrato da peana critici di cui si avverte ancora l’eco - di David Bowie porta via con se la possibilità di allungare la sua lista di alias e di svolte artistiche, di illuminare – come una stella nera, mai pulita e chiara, che anche le supernove hanno scie spurie e pericolose, come le vite di tutti noi – la strada del suono che sarebbe venuto, che poteva venire. Anche "Lazarus", primo singolo tratto dal disco, avrebbe dovuto dirci chiaramente di che cosa stava parlando, ma, vedendolo così in forma nel sound e nelle foto di accompagnamento, avevamo dimenticato il tumore di cui soffriva.

Camaleonte del rock e gigante del Novecento tour court, Bowie è stato Ziggy Stardust, Halloween Jack, l’uomo che cadde sulla terra, Nathan Adler, il Duca Bianco.

Lindsay Kemp gli aveva insegnato come usare il corpo e lui l’ha messo tutto nella sua musica, insieme cerebrale e fisica, di successo e d’avanguardia, commerciale e sperimentale.

Attraversando i suoni del secolo scorso – dal folk al jazz d’avanguardia, passando per il glam rock, il revival soul, il kraut rock e l’elettronica – ha dato scandalo con un’immagine androgina ed una presunta bisessualità capaci di scandalizzare i piccoli borghesi e di fare tendenza.

Personaggio mai in cerca di autore, sin dall’inizio nella swingin’ London degli anni Sessanta ha tentato – riuscendoci – di essere sempre avanti gli altri, arrivare prima degli altri: “Volevo vedere quello che capitava. La mia paura era di passare di fianco a una nuova moda che stava per arrivare”, spiegò una volta, quando ormai era lui a dettarle le mode, con album epocali come “Space oddity” (’69), “The rise and fall of Ziggy Stardust” (’72), “Aladdin Sane” (’73), “Diamond dogs” (’74), “Young americans” (’75), “Station to station” (’76); la trilogia elettronica e berlinese di “Heroes” (’77), “Low” (78) e “Lodger (’79); “Scary monster” (’80), “Let’s dance” (’83), “Blackstar” (2016)…

A Napoli il suo album del 1974 aveva dato nome a un ormai mitologico club, il Diamond Dogs, ricordato l’anno scorso al Pan con una mostra: una cava alla Sanità, un popolo di “freaks” che gli sarebbe piaciuto. Poi, il 10 luglio 1997 cadde sulla terra di Bagnoli per la prima edizione del Neapolis festival che, proprio come il Diamond Dogs, non c’è più.
 


Dalla recensione e dagli appunti dell’epoca rispunta una scaletta che iniziava con “Quicksand”, proseguiva con “All the young dudies”, “The Jean Genie”, “The man who sold the world”, “I’m afraid of americans”, “Seven years in Tibet”, Fame”, “V-2 Schneider” e due formidabili cover: “White light, white heat” dei suoi amatissimi Velvet Undeground e “Oh superman”di Laurie Anderson. Frammenti di nostalgia canaglia sotto la luce della sua Blackstar: quella notte tutti avremmo voluto cantare con lui la possibilità di essere re, regine, eroi anche solo per un giorno. La colmata dell’Ex Italsider ci ricordava il Muro di Berlino e quei versi li sapevamo a memoria, anche tradotti nella nostra lingua: “Siamo un nulla e nulla ci aiuterà/ forse stiamo mentendo/ allora è meglio che non rimanga/ ma potremmo essere più al sicuro/ solo per un giorno”.

Ciao stella nera e malata, splendi in pace.

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