Cat Stevens, pace con Yusuf Islam

Cat Stevens/Yusuf Islam
Cat Stevens/Yusuf Islam
di Federico Vacalebre
Lunedì 18 Settembre 2017, 17:21 - Ultimo agg. 17:23
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Federico Vacalebre
In fondo, Steven Demetre Georgiou si è sempre nascosto: negli anni Sessanta quando divenne Cat Stevens, songwriter armato di una semplicità travolgente e di melodie naif quanto immediate; nel 1977 quando divenne Yusuf Islam ed al posto degli occhi di gatto che avevano suggerito il primo pseudonimo iniziò a sfoggiare la devozione dei convertiti, mortificando a lungo la sua vena musicale, prima di ritrovarla in qualche modo. «The laughing apple» è intestato a entrambi, Cat Stevens e Yusuf Islam: il primo era fermo da (1978) di «Back to earth», il secondo da tempi ben più recenti («Tell’em I’m gone» è del 2014). Come tenerli insieme? Cantando in modo nuovo pagine antiche, scegliendo il Cat Stevens meno carnale ed erotico, pulendo arrangiamenti tonitruonanti in favore di un intimismo più coerente con le nuove - si fa per dire - scelte religiose, lasciando che a volte le parole evochino drammi e scenari, invece di dirli, denunciarli.
«Blackness of the night», che viene come diversi altri pezzi, title track compresa, dal suo secondo lp, «New masters», del ‘67, diventa una ballata acustica con organo alla Procolo Harum e sembra dar voce al dramma dei rifugiati, conservando quella speranza che nei Sixties era moneta ben più diffusa di oggi. Solo tre sono i brani nuovi di zecca, attribuibili a Islam, quasi che l’ispirazione fluisse più torreziale milioni di anni fa, quasi che il Gatto abbia convertito Yusuf: «You can do (whatever)!» era rimasta fuori dalla colonna sonora di «Harold & Maude» di Hal Ashby per finire nel film del 2013 di Joshua Michael Stern su Steve Jobs; «Mighty peace» è una ballata ingenua scritta agli esordi, come ingenue sono la fiaba-filastrocca «Mary had a little lamb» o la ninna nanna «I’m so sleepy», forse anche «Grandsons», scritta da un uomo che sognava di veder crescere i suoi nipoti ed ora è nonno da un pezzo.
Nulla di nuovo, nemmeno la deriva beethoveniana di «Don’t blame them», anzi il piacere di ritrovare una voce di grana grossa e profonda, meno selvaggia e carnale, più ripiegata e pensosa. Islam ha concesso a Stevens anche il ritorno a casa di Paul Samwell-Smith, al suo fianco già dai giorni di «Tea for the Tillerman» e «Teaser and the firecat». In fondo sono passati cinquant’anni dal debutto dello chansonnier cosmopolita, quasi 40 da quando il Corano gli sembrò più importante della swinging London che peraltro non esisteva più. Il disco della riconciliazione con se stesso, insomma: vediamo se il prossimo saprà di futuro, invece che di passato pacificato.
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