Caparezza al Mattino: «Io, l'acufene, il rap e Jung»

Caparezza
Caparezza
di Federico Vacalebre
Venerdì 15 Settembre 2017, 13:32 - Ultimo agg. 20 Settembre, 20:42
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La cosa che Caparezza amarebbe più di tutto è essere fuori dal tunnel dell'acufene: «Purtroppo una soluzione a quella patologia non esiste. Nel giugno 2015 il fischio che avevo nelle orecchie da anni è aumentato fino a diventare una tortura, forse a causa del volume della musica in mezzo a cui sono vissuto». Eppure «Prisoner 709» non soffre un taglio di frequenze, anzi allarga lo spettro sonico finora utilizzato dal rapper-cantautore, mettendo in secondo piano la vocina-alter ego nasale, partorendo uno strano concept album sulla prigionia, fisica e mentale, reale e virtuale, in cui viviamo tutti.
 


Che cosa c'entra l'acufene con tutto questo?
«La malattia mi ha buttato in un brutto periodo: ho rimesso in discussione me stesso, mestiere compreso. Poi, a 43 anni, 4+3 fa 7, e mi sono ritrovato a scrivere un cd sulla libera scelta, una scelta così poco libera da essere ristretta a due ipotesi, simboleggiate dai due numeri del titolo, 7 e 9».

Ma nel titolo c'è anche lo 0.
«È una ''o'', sta nel mezzo, ha la forma del disco, rappresenta - come tutte le canzoni - la scelta tra una parola di sette lettere (Michele), il mio vero nome, e una di nove (Caparezza)».

Sul fronte patologico non c'è solo l'acufene: si inizia con «Prosopagnosia», con John De Leo, e si chiude con «Prosopagno sia!», iniziando i giochi di parole che accompagnano quelli numerologici, la carica delle allitterazioni che toccherà l'apice con «Nei palazzetti pazzeschi sarò Palazzeschi».
«Credo che nessuno abbia cantato prima il deficit che impedisce il riconoscimento dei volti altrui, anche se qui sono io che non riconosco me stesso, il mio alter ego, il mio vero io».

Darryl McDaniels, leggenda del rap con i Run Dmc, appare in «Forever Jung», ancora un gioco verbale in un disco molto rap per mole e flusso di parole, molto rock, anche teso e cupo, nel suono.
«Il rap è psicoterapia, quindi materia mia. Per molto di noi l'hip hop è stato il lettino dello psicanalista, il momento in cui le parole diventavano flusso di coscienza».

Il singolo chè da il titolo al disco è uno dei dilemmi più folli: «Io sono il disco, non chi lo canta/ sto in una gabbia e mi avvilisco». Compact o streaming?
«La risposta ”modaiola ''vinile'' non vale. Il cd è arrivato per salvare l'industria discografica, far entrare più tracce in un prodotto, essere immortale, poi è stato mandato in pensione dal digitale, ma intanto è diventato un feticcio pure lui. Così ho dato voce alla musica prigioniera nei miei cd, anche io li colleziono, ma poi quando devo ascoltare qualcosa... corro in rete».

Dalla solarità del precedente album «Museica» a questo viaggio al termine di Caparezza, al dilemma tra ragione o della religione, per dirla con «Confusianesimo», neologismo prodigioso?
«Sono laico, ma il solito Jung ci dice che in tutti noi esiste come archetipo la ricerca del divinio. La fede sembra scienza, tra testo epico e impianto scenico, tranquillizza tanti, ma non me, così nel brano adotto insieme tutte le religioni, quindi nessuna, e vivo confuso e infelice. In ''Migliora la tua memoria con un click'' - ovvero ricorda o dimentica - c'è lo smemorato di Molfetta che ha registrato un file per ricordarsi chi è stato. ''Sogno di potere”'' - servire o comandare? - ricorda Ludwigh Der Zweite, Ludovico II di Baviera, più interessato a Wagner che alla guida del suo regno».

Tra personale e politico, qui il personale è politico, si sarebbe detto un tempo. E il capolavoro retorico, se la retorica è l'arte di usare le parole, del disco è «Infinto», altro neologismo geniale.
«Leopardi guardava oltre la siepe cercando l'infinito, io dalla unica finestra della mia infermeria cerco il vero e trovo il conforto del finto, come il sorriso delle infermiere. A volte la finzione è più vera, e benefica, della realtà».

7 o 9, insomma?
«La somma non fa il totale, ma...
Ci rivediamo in tour: a Napoli ci rivediamo il 28 novembre, al Palapartenope».

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