CantaNapoli di seconda generazione, meticcia e contaminata

CantaNapoli di seconda generazione, meticcia e contaminata
di Federico Vacalebre
Domenica 14 Ottobre 2018, 16:26
4 Minuti di Lettura
CantaNapoli di seconda generazione. Meticcia e contaminata per definizione, dai turchi sbarcati alla marina alle tammurriate nere, la canzone napoletana 2.1 ha (anche) la voce di due giovani cantanti afropartenopee.
Djarah Khan, scoperta da Salvio Vassallo per il secondo step del suo progetto Il Tesoro di San Gennaro, ma già vista in tour con Zulù o fare la cattiva in un video di Tommaso Primo, ed ascoltata in produzioni di D-Ross, è nata a Castel Volturno da madre del Ghana e padre sconosciuto. Giovane e bella, ha un blog (Kasava Call) in cui scrive articoli intitolati «Mio padre, lo scafista». «Che tipo di Italia racconta lo ius soli temperato?») e «African taxi: quando il trasporto pubblico fallisce e la riorganizzazione parte dal basso»). Con Vassallo ha da poco pubblicato in rete «'O viento nuovo»: su una base digitalminimalistaetnica il suo canto è sofficentemente disturbante e alterna l'inglese ad un dialetto veracissimo, senza nessuna incertezza di pronuncia: «Pare nu' suonno o core s'astregne/ je cca nun respiro, o mare nun s'arretira». È quasi una preghiera laica, quasi un esorcismo «nato guardando le elezioni vinte dalla Lega, il respingimento dei barconi della morte, la paura dell'altro e del diverso che sta imbarbarendo un popolo una volta accogliente», commenta il compositore partenopeo: «Ave o Maria chisto è o destino/ vide a na figlia o l'ombra e n'atu clandestino?».

Eccola la parola, «Clandestino», come cantavamo un tempo sollecitati dalla goliardia militante di Manu Chao. «Questa pelle che abbiamo ci permette di testare in tempo reale la quantità di veleno che gli italiani hanno attualmente in circolo nel proprio sangue», scriveva Djarah in uno dei suoi articoli, che finiva senza mandarla a dire: «Ecco a cosa penso, quando sento certa gente dire prima gli italiani. Ho di fronte a me l'immagine di migliaia di bulletti dei Parioli che credono di essere più umani degli altri esseri umani, per il solo fatto di aver migrato milioni di anni fa dall'Africa fino all'Europa ma con una buona protezione solare nella sacca. Prima gli italiani, eh? Ma solo se ricchi, possibilmente del Nord Italia e con un reddito annuo che gli permetta di pagare meno tasse e di evadere il più possibile, secondo le proprie possibilità».

Anche Simona Coppola, alias Simona Boo («non conoscevo le mie origini, Simona non so mi sembrava il nome più adatto per me»), è un'italiana di seconda generazione e anche lei si è fatta notare prima accanto a Zulù (questa volta però con tutto il resto dei 99 Posse), per poi mettere in piedi i suoi progetti di bossa nova ed essere arruolata dal mucchio selvaggio multikulturale dell'Orchestra di Piazza Vittorio con cui sta lavorando a un «Don Giovanni» postmozartiano che stasera è ancora all'Arena del Sole di Bologna, mercoledì sarà ad Ivrea per far tappa a Napoli, teatro Bellini, dal 19 al 28. Classe 1985, nata Termoli ma ormai napoletana doc, diplomata al primo livello di canto jazz a San Pietro a Majella (con una tesi sull'influenza del jazz nel samba), laureata in management culturale, ha appena lanciato «Sufia», che sembra riferirsi alla sua storia personale: «Sono stata adottata a tre anni, ero convinto che mia madre fosse nera, mi sentivo sudamericana. Poi... sono riuscita a ricomporre il puzzle, a ricostruire la mia storia. Mia madre è italiana, mio padre nigeriano».

«Nel brano ci sono le mie tre lingue, napoletano, italiano e portoghese. Ho studiato in Portogallo, sono cresciuta a Varcaturo e poi ho scelto il centro storico, impazzisco per Chico Buarque De Hollanda e il ragù. La Sufia del titolo è un personaggio metà divino e metà umano. Corre, sta scappando da una guerra reale o che vive dentro di sé. Rappresenta la donna che si trova da sola di fronte a una scelta quella di tenere o abbandonare il proprio figlio. Qualunque sia l'esito di questa scelta lei è forza, coraggio e voglia di vivere». Il suono? «Quasi celtico, ma la voce è a tratti arabeggiante, il basso è morbido e sinuoso e ci sono congas e surdo che ricordano l'Africa. Chitarra e batteria si aprono con un crescendo decisamente rock». Ah già Simona si fa chiamare ancora Boo anche se oggi sa da dove viene («devo ancora scoprire chi è mio padre») e sa che ama la sua città adottiva: il rapper Pepp'Oh la chiama «'a regina e Muntesanto» e nel suo curriculum spicca anche la militanza con i Terroni Uniti: «Siamo quelli che sono andati a Pontida a cartagliele a Salvini, ricordate?».

Cantanapoli di seconda generazione, la «tammurriata nera» cantata da E.A. Mario e Edoardo Nicolardi era storia di un milione di anni luce fa: «Mama Sufia, mama Sufia/ madre di tutti al seno allattami/ chesta creatura nunn'a vuo' guarda'».
© RIPRODUZIONE RISERVATA