L’eretico Bob Dylan
convertito dai classici Usa

L’eretico Bob Dylan convertito dai classici Usa
di Federico Vacalebre
Giovedì 30 Marzo 2017, 10:59
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Con precisione degna degli strateghi del marketing, il nuovo album di Bob Dylan arriva nelle redazioni nello stesso giorno della notizia della consegna - finalmente, ma non è mai detta l’ultima parola - del Nobel. Con precisione dylaniana e dylaniata il camaleonte del rock ha appena concesso una delle sue sempre più rare interviste, parlando molto del suo nuovo mentore, Frank Sinatra, a cui ha dedicato i due dischi precedenti, «Shadows in the nights» e «Fallen angels», e della passione per quel «great american songbook» che proprio la sua rivoluzione contribuì a mandare in pensione trasformandolo in «repertorio classico», ma mai del premio più prestigioso del mondo.

Come il Rimbaud che finì - ma per davvero? - a fare il mercante d’armi in Africa, il songwriter che rubò il nome d’arte a Dylan Thomas, sognava di essere Elvis Presley ma si travestì da Woody Guthrie, non ha mai cercato di essere fedele a nessuno, compreso se stesso. Tanto meno ora, a 75 anni, e con un lauro da poeta a completarne il record: nessun altro al mondo ha vinto il Nobel, l’Oscar e il Pulitzer, con contorno di Grammy Awards. Così lui, che quando canta le sue canzoni, conosciute a memoria da milioni di persone di ogni etnia, le rende irriconoscibili, le borbotta, le violenta, le distorce, le riscrive in un rantolo canoro aggrovigliato come un viaggio al termine della notte, qui scandisce ogni parola, ogni sillaba, ogni romantico apostrofo rosa tra le parole «I love you».

Ma lo fa da crooner alieno, mai nessuno aveva avvicinato gli standard a stelle strisce con simile nonchalance, scegliendo un’intensità desueta, un approccio malinconico da antiche luci soffuse, un’intonazione non sempre perfetta, e vai a vedere se può mai importare l’intonazione al cantautore che qualcuno - erano tanti, a dir la verità - sognava di vedere alla testa dell’esercito di liberazione dell’America e che ora proprio quell’America che non ha contribuito a liberare canta come l’ultimo dei romantici, credibile come sempre nella sua carriera, a patto di non chiedergli se ci è o ci fa. 

Il disco, che qualche ragazzo ascolterà, se mai lo ascolterà, solo sotto forma liquida sulla sua piattaforma digitale preferita, è triplo come succedeva nel secolo scorso, persino diviso in sei facciate, persino assemblate per temi. La chiave di tutto, forse, sta in un pezzo come «Once upon a time»: c’era una volta la favola dell’eroe folk che rivoluzionò il mondo con una chitarra elettrica, la fiaba del Nobel che decise di mettere su disco parole di altri, che non canta mai però nel suo «Neverending tour» che, proprio in questo fine settimana, lo porterà a Stoccolma. 
«Frank conosceva “The times they are a-changin’ e “Blowin’ in the wind”. Gli piaceva “Forever young”, me lo disse lui stesso. Una sera, sulla sua terrazza, esclamò: “Tu e io abbiamo gli occhi azzurri e veniamo da lì. E indicava le stelle. Pensai che aveva ragione», ha detto raccontandosi a Bill Flanagan, producer e direttore editoriale di Mtv. E a lui le canzoni di Ol’ Blue Eyes piacciono, eccome, e non solo le sue, se stavolta smette il gioco, peraltro mai dichiarato, di attingere solo al suo songbook, e si misura con pezzi mai intonati da The Voice, ancora una volta senza guardare al suo magistero, nè a nessun altro dei (tanti) modelli possibili.

Dylan canta «Stormy weather», «My one and only love», «As time goes by», «How deep is the ocean», «These foolish things», «You go to my head» e «Stardust» come se nessuno le avesse cantate prima, lasciando volutamente errori ed incertezze, se le permette con il proprio repertorio, figurarsi con quelli altrui. Gli arrangiamenti prevedono l’uso di una piccola band, quella del tour, non guardano certo al sound orchestrale che esaltò simili capisaldi dell’immaginario Usa. Lo swing al centro di molti dei pezzi è, poi, quasi istituzionalmente ignorato, scegliendo un approccio rilassato, che esalta il contributo della pedal steel guitar di Donnie Herron, al fianco del basso di di Tony Garnier. «You must remember this/ a kiss is just a kiss», scandisce il mai prima fine dicitore di Duluth. L’omaggio esplicito a compositori, editori e voci di Tin Pa Alley viene mediato dalla disinvoltura di rilettura, dall’originalità del tocco, a tratti intriso di humour («There’s a flaw in my flue»), ma evitando trivialità kitsch.

Qualcuno sosterrà, magari anche a ragione, che per consegnare ai posteri queste canzoni sia meglio puntare su una Diana Krall o su un Michael Bublè, ma solo un autore del calibro di sua Bobbità - e non ne esistono, ricordava un collega come Leonard Cohen - può dare il giusto risalto alle disinvolte parole d’amore e alle dolcissime melodie affrontate.

In fondo, da autore dei «moderni american standard» può competere alla pari con standard che erano tali già quando lui era ancoras un ragazzino. Un confronto tra pari, anche se non tra Nobel, ma lui ai premi non ci tiene, si sa, preferisce godersi la gioia di una magica ballad d’altri tempi e trasmettercela come se fosse nel salotto di casa sua. Anzi nel tinello marron di un tempo, proprio quello eternato da un altro amante dell’american songbook come Paolo Conte.

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