Festival di Venezia, tutti pazzi per Frances: Micaela madre dolorosa

Festival di Venezia, tutti pazzi per Frances: Micaela madre dolorosa
di Titta Fiore
Martedì 5 Settembre 2017, 10:09 - Ultimo agg. 10:30
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Inviato a Venezia

La madre coraggio di Frances McDormand punta diritto al Leone e all’Oscar, e se a decidere i premi fosse l’applausometro trionfale del Lido, «Three Billboards Outside Ebbing, Missouri» del regista e commediografo irlandese Martin McDonagh avrebbe già vinto a mani basse. La madre dolorosa di Micaela Ramazzotti si carica sulle spalle tutto il film di Sebastiano Riso «Una famiglia», ed è la cosa migliore di questo secondo titolo italiano in concorso, accolto tiepidamente alle proiezioni stampa. Entrambe, McDormand e Ramazzotti, danno ai loro personaggi feriti, spezzati, fragili o rocciosi che sembrino, una carica di umanità capace di lasciare il segno.

Attraversando lo schermo «con una falcata alla John Wayne» Frances occupa la storia con rabbia potente nei panni di una donna colpita dal dramma più atroce: la morte della figlia adolescente stuprata e bruciata da mostri assassini che sembrano essersi dileguati nel nulla. Dopo mesi di indagini a vuoto, noleggia tre cartelloni pubblicitari per denunciare lo stallo delle ricerche e il suo gesto dà la stura a una serie di reazioni e accadimenti che compongono uno straordinario affresco della provincia americana razzista, omofoba e conformista. La «nube nera» di cui ha parlato Clooney qualche giorno fa, a proposito di «Suburbicon», illividisce anche i cieli del Missouri, ma qui i toni da commedia dark mescolata al thriller fanno la differenza.

«Il film è divertente e malinconico come tutte le storie scritte da Martin, ma anche pieno di umanità. Un copione perfetto, pura letteratura, non bisognava aggiungere nulla», dice l’attrice, moglie di Joen Coen e premio Oscar per «Fargo»: «Oh, quel film, il personaggio di Marge me lo porterò dietro anche nella tomba...». Ma è innegabile che un po’ dello stile Coen si riverberi anche in «Three Billboards» e nei suoi protagonisti surreali, lo sceriffo malato terminale di cancro interpretato benissimo da Woody Harrelson e il suo vice immaturo, spaccone e violento cui dà il volto Sam Rockwell. Tra echi western (Frances: «inconsci, però») e omaggi dichiarati a Sergio Leone (McDonagh: «abbiamo usato la musica come faceva lui»), il segreto del film, dicono tutti, è la grande personalità dei personaggi, l’empatia che riescono a suscitare.

«Come nella vita, la personalità di ciascuno è sfaccettata, dentro di noi c’è il bene e il male e anche la protagonista è un’eroina e il suo contrario. È vero, in questa storia ci sono tipi violenti e razzisti, ma vanno capiti anche i loro motivi, e perché sono diventati così». Per interpretare la sua protagonista piena di rabbia e di bruciante umorismo, McDormand ha incontrato persone che hanno perso un figlio. Modelli cinematografici cui ispirarsi, invece, pochi, e sempre maschili: «Ecco perché alla fine mi sono ricordata di John Wayne: come icona ha resistito alla prova del tempo, in “Sentieri selvaggi” era un gran razzista, ma alla fine provavi simpatia per lui».

In «Una famiglia» Micaela Ramazzotti affronta il ruolo forse più duro della sua carriera, una donna complice e vittima del progetto criminale portato avanti dal marito senza scrupoli: partorire bambini per venderli al mercato nero. Quattro, cinque volte, finché prende coscienza dell'enormità del gesto e concepisce in cuor suo la ribellione. «Ho interpretato tante volte una madre, e mai per caso. Queste donne le ho cercate, le ho volute e rincorse, più sono disgraziate e subalterne e più le voglio fare» racconta l'attrice. «Mi piace difenderle e dare loro voce, penso che il cinema serva anche a questo. Maria, il mio personaggio, è una madre bambina che a malapena riesce a prendersi cura di se stessa e si abbraccia, come per darsi forza. Mi sono sentita subito dalla sua parte, non amo le eroine». Il film, spiega Riso, non vuole aprire un dibattito sull'utero in affitto e le madri surrogate, ma raccontare l'Italia di oggi: «Da noi già è difficile essere genitori naturali, ma adottare un bambino è complicatissimo per le coppie eterosessuali, impossibile per quelle gay. E non lo dico perché io sono omosessuale. Le norme troppo restrittive generano illegalità. Preparando il film abbiamo attinto alle intercettazioni del procuratore Raffaella Capasso, nella sceneggiatura ci sono casi di fantasia con molti elementi di verità. Una famiglia, in fondo, parla di un calvario, del dramma affrontato da chiunque si trovi coinvolto nell'inferno delle adozioni». Concorda la Ramazzotti: «Questo ragazzo è il regista più libero che abbia mai conosciuto. Sul set sono sempre stata la bambina di autori importanti, lui ha saputo tirare fuori il mio lato primitivo. E ha dato una scossa alla mia autostima facendomi sentire brava come Meryl Streep. Poi a casa mi vergognavo, si capisce».
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