Toni Servillo diventa psicanalista: «Così mi sono lasciato andare»

Toni Servillo diventa psicanalista: «Così mi sono lasciato andare»
di Titta Fiore
Martedì 11 Aprile 2017, 11:22
4 Minuti di Lettura
Ci pensava da tempo, Toni Servillo: «Avevo sparso la voce che mi sarebbe piaciuto fare una commedia a tutto tondo». E qualcuno ha raccolto il messaggio. «Proprio così, a un certo punto mi è arrivato il copione di Lasciati andare e mi ha convinto subito». Quindi, dimenticate la pensosità di Jep Gambardella, la fissità ieratica del Divo Giulio o la doppiezza ruvida di Gorbaciof: questa volta il grande interprete di Goldoni e Marivaux, di Eduardo e Jouvet si è messo in testa di far ridere. E ci riesce alla grande. Nel film di Francesco Amato, prodotto da Cattleya con Rai Cinema, presentato ieri a Milano e in uscita giovedì in 550 copie, numeri da blockbuster americano, Servillo è uno psicanalista stimato, annoiato, un po' imbolsito, capace di tenere tutti a distanza di sicurezza, compresa l'ex moglie (Carla Signoris) di cui pure continua ad essere innamorato. Con parsimonia, come gli suggerisce l'indole risparmiosa e un'esistenza avara di emozioni. Finché un giorno un lieve malore lo costringe ad iscriversi a un corso di fitness. Con scarsi risultati, s'intende. Ma in palestra s'imbatte in una personal trainer carina e casinista d'origine spagnola (Veronica Echegui), con tutte le complicazioni del caso.

Che cosa le è piaciuto del suo bizzarro personaggio, Toni?
«La capacità di accettare i cambiamenti imposti dalla vita. Sulle prime Elia, si chiama così, insegna ai pazienti sdraiati sul lettino che nessuno può essere diverso da quel che è, alla fine del film cambia totalmente idea, crescendo in simpatia e, credo, nell'affetto degli spettatori».

Insomma, il suo protagonista si lascia andare, e lei pure sul set lo ha fatto.
«Sì, mi è sembrata bella l'atmosfera del film e interessante l'intreccio tra due personaggi che non potrebbero essere più diversi - il professore e la personal trainer - eppure si aiutano esercitando uno per l'altra il proprio mestiere, involontariamente. È questo il sale della commedia: mostrare gli aspetti più imprevedibili degli accadimenti e valutare le cose che ci vengano incontro come un'opportunità».

Nel paese della commedia all'italiana oggi sembra difficile coniugare divertimento e qualità: perché secondo lei?
«A volte ci si accontenta di un prodotto facile, con i tempi e la logica dello sketch...»

«Lasciati andare», invece, sa essere divertente ed elegante.
«Se ci siamo riusciti ne sono felice, di sicuro è una commedia molto pensata e lavorata. Con il regista abbiamo fatto lunghe sedute di lettura del testo, almeno una volta al mese mi raggiungeva in tournée e lavoravamo su battute e caratteri per dare al film un ritmo, una brillantezza da cinema e non da commediola filmata».

Sullo schermo ne combina di tutti i colori e nell'esercizio delle sue funzioni lascia alquanto a desiderare: a volte si distrae, spesso si rimpinza di dolciumi, si addormenta perfino alle confessioni del paziente. Come la prenderanno i suoi «colleghi» psicanalisti?
«Ho molti amici psicanalisti, professionisti di primissimo ordine, e credo si divertiranno a vedere questo personaggio così eterodosso alle prese con una ragazza buffa e tenera che è quanto di più lontano ci sia dalle sue tranquille certezze borghesi».

Lei frequenta la psicanalisi?
«Il teatro è il modo che ho scelto per interrogare la mia interiorità».

Però all'università studiava psicologia.
«Vero, e contemporaneamente recitavo. All'esame di psicologia dell'età evolutiva il professore, un sacerdote, mi disse: Smetta con questi studi, perché le ingombrano lo spirito. Non me lo feci ripetere due volte, mi sentii subito assolto».

Il film mette alla berlina un'altra ossessione dei nostri tempi: il culto della forma fisica. Fa un certo effetto vederla sudare in palestra.
«Beh, diciamo che non sono ricorso a nessun metodo di recitazione per stamparmi sul viso l'incredulità di fronte a certe macchine per il corpo».

Nella vita, quindi, non è un appassionato di fitness.
«Non sono sedentario come il mio personaggio, il fisico di un teatrante deve essere pronto, reattivo... Quando posso faccio lunghe passeggiate nel parco della Reggia di Caserta, dove vivo. Tre chilometri ad andare, tre a tornare, mi sembra un buon allenamento».

Le sue commedie preferite, da spettatore?
«Da Lubitsch a Mel Brooks, da Woody Allen a Frank Capra e Billy Wilder per l'eleganza e la leggerezza; e i nostri maestri, da Risi a Monicelli, per la straordinaria capacità di incidere sul malcostume, sulle miserie dell'italianità».

Ci riproverà, con la commedia?
«Se me ne capitano di questo tenore, perché no? Mi sono così divertito a correre, a fingere la fatica dello sforzo fisico, a rendermi ridicolo con le scarpette vecchie, le t-shirt dei convegni, la cyclette della mamma...».

Nel frattempo è passato al thriller e gira a Bolzano un film con Donato Carrisi.
«La ragazza nella nebbia, dal libro dello stesso Carrisi. Sono un ispettore di polizia non proprio specchiato, l'atmosfera è da brividi».

E in estate l'aspetta Sorrentino con il film su Berlusconi, un'altra bella sfida.
«Di questo bisogna chiedere all'autore, io ne parlerò solo quando avrò fatto l'esperienza».

Ma è più difficile far ridere in teatro o al cinema?
«La risata del pubblico fa parte del ritmo della battuta, dilata o restringe uno spettacolo, al cinema molto dipende dalla capacità del regista, dal montaggio... Sono due mestieri che si somigliano».
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