Paolo Villaggio, il clown ribelle
che visse senza maschere

Paolo Villaggio, il clown ribelle che visse senza maschere
di ​Valerio Caprara
Martedì 4 Luglio 2017, 08:37 - Ultimo agg. 14 Agosto, 13:53
3 Minuti di Lettura

Paolo Villaggio va in Paradiso. È morto ieri, all'età di 84 anni, il grande attore che ha rivoluzionato la comicità raccontando le frustrazioni dell'italiano medio. È morto un rivoluzionario, non è morto un attore. La prova regina è quella che nell'ora dell'addio vede prolificarsi le controfigure del professor Guidobaldo Maria Riccardelli, avide di accaparrarsi le spoglie del più coriaceo alfiere del politicamente scorretto, il cittadino Paolo Villaggio mai omologato nonostante il colossale successo e antidoto permanente alla deriva del Belpaese nel socialismo reale dello spettacolo. Dunque bando ai piagnistei e alle lugubri cerimonie a cura del Crai (comitato rivalutazioni approvate dagli intellettuali) perché se n'è andato un uomo buono, ma resta per sempre il cronista implacabile di ciò che di più disilluso e rabbioso alligna dentro di noi.
 


Naturalmente il genovese classe 1932 Villaggio non è stato solo la quintessenza della nullità sociale incarnata nelle maschere di Fantozzi o Fracchia, bensì un professionista curioso e versatile, cresciuto nel sodalizio con Fabrizio De André, maturato come Enzo Tortora e Carmelo Bene nel laboratorio della compagnia teatrale Baistrocchi e lanciato come cabarettista dal mitico Derby Club di Milano. Apparso sul grande schermo alla fine degli anni Sessanta, sabota da subito il ruolo da caratterista ritagliandosi nella magmatica evoluzione della commedia all'italiana uno spazio tutto suo, quello, appunto, di un Franti della comicità, un kamikaze del sarcasmo, un paradosso animato non a caso consono alle scariche di cinismo care a registi-contro come Monicelli, Salce, Ferreri. Una delle cantonate che adesso viaggiano (propalate purtroppo anche dall'ambito familiare) sull'onda delle commemorazioni è quella di una carriera che sarebbe stata sperperata nella routine commerciale e riscattata solo dall'intervento in extremis dei Fellini («La voce della Luna») e degli Olmi («Il segreto del bosco vecchio»): a questo proposito quanto ci piacerebbe avere registrato qualcuna delle esilaranti dissacrazioni del culto cieco e acritico concesso ai film «autoriali» che abbiamo ascoltato dalla sua viva voce nel corso di una premiazione o di un festival...

Continua a leggere su Il Mattino Digital

© RIPRODUZIONE RISERVATA