L'Oscar, una favola sulla diversità:
l'immigrato Del Toro conquista tutti

L'Oscar, una favola sulla diversità: l'immigrato Del Toro conquista tutti
di Titta Fiore
Martedì 6 Marzo 2018, 10:34 - Ultimo agg. 13:50
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Ha vinto una favola, la storia di un amore bello e impossibile tra una donna muta e un uomo pesce che in fondo è una parabola sul valore dell'accoglienza e sull'accettazione della diversità. «La forma dell'acqua» di Guillermo Del Toro trionfa agli Oscar nelle categorie principali (miglior film, regia, colonna sonora di Alexandre Desplat e scenografia) portando per la quarta volta in cinque anni un autore messicano, «un immigrato», sul tetto del mondo del cinema e anche questo vorrà dire qualcosa nell'America dei confini e dei muri. Ha vinto, correndo per l'Italia con la sceneggiatura di «Chiamami col tuo nome» di Luca Guadagnino, un cineasta quasi novantenne e blasonato come James Ivory in un'edizione che avrebbe dovuto essere dominata dai volti nuovi, dai giovani leoni come Timothée Chalamet e Saoirse Ronan e invece non ha mancato di sottolineare il potere dell'esperienza. Nell'anno delle campagne neofemministe di «Time's Up» e «MeToo» la maggior parte dei premi li hanno vinti i maschi, essendo la statistica tristemente dalla loro parte, ma le donne che rappresentano solo l'11 per cento dell'industria di settore hanno trovato il modo di farsi sentire forte e chiaro e Frances McDormand, miglior attrice di «Tre manifesti a Ebbing, Missouri», sul palco del Dolby Theatre ha arringato le colleghe spronandole a far sentire di più la loro voce (poi, nella foga, al Ballo del Governatore ha perso di vista la statuetta, ma il ladro maldestro è stato prontamente arrestato).

Impegnati ma non troppo, gli Oscar di questa edizione hanno segnato comunque una ripartenza. Al giro di boa dei novanta e dopo lo tsunami delle molestie, molto ci si aspettava da un evento che non è mai stato solo spettacolo e dove anche il colore dell'abito può indicare uno stato d'animo o una posizione politica. Invece, nell'anno primo del dopo-Weinstein lo show dell'Academy ha metabolizzato la protesta di genere facendo proprio «lo spirito del tempo». Niente luttuosi colori penitenziali in passerella, nessun colpo di scena, ma tutti i temi che da mesi tengono banco nel dibattito pubblico hanno trovato posto nelle scelte dei giurati, nei ringraziamenti dei vincitori, nel monologo iniziale del conduttore Jimmy Kimmel. Diversità, inclusione, parità, equo compenso sono stati i concetti più frequentati nelle cinque ore della diretta in mondovisione. «Facciamo film come Chiamami col tuo nome solo per far arrabbiare gente come Mike Pence» ha detto Kimmel prendendo di mira il vicepresidente degli Stati Uniti che considera l'omosessualità un'aberrazione. L'uomo ideale in tanta confusione? È ancora il vecchio «zio Oscar», un tipo capace di «tenere le mani a posto, la bocca chiusa e soprattutto è sprovvisto di sesso, proprio quel che ci vuole in questa città». Il premio per la sceneggiatura a Jordan Peele, giovane, indipendente e di colore per l'horror rivelazione «Get Out», dice molto sul cambio di passo dei votanti dopo le polemiche per gli Oscar «so white», troppo bianchi, e troppo convenzionali nelle scelte. Con il miglior film straniero, «Una donna fantastica» di Sebastian Lélio, per la prima volta la statuetta arriva in Cile e per la prima volta sul palco dell'Academy sale un'attrice transgender, la talentuosa Daniela Vega.
 


Affidato a Salma Hayek, Annabella Sciorra e Ashley Judd, tra le prime attrici ad accusare il predatore seriale Harvey Weinstein, il momento «Time's Up» torna sul concetto dei diritti negati con le testimonianze di Mira Sorvino e Geena Davis. «Ai tempi di Thelma & Louise tutti dicevano che ci sarebbero stati più film di donne e per le donne», ha ricordato quest'ultima, «allora non accadde, ora è arrivato il momento». È arrivato il momento, ripetono volenterosi premiati e premiatori, e speriamo che passata l'euforia della festa qualcosa dei buoni propositi resti, al di là delle spillette appuntate sui decolleté rimpolpati dal botox e sui baveri degli smoking indossati con malagrazia. Intanto, l'italiana Alessandra Querzola, in gara per gli arredi di «Blade Runner 2049» con Dennis Glasser, deve cedere il passo ai colleghi de «La forma dell'acqua», e delle cinque candidature di «Lady Bird» della cineasta di tendenza Greta Gerwig si perdono rapidamente le tracce.

I premi ai non protagonisti Sam Rockwell e Allison Janney confermano le previsioni della vigilia, Gary Oldman nei panni di Churchill in «L'ora più buia» non aveva rivali. L'altro filmone di guerra, «Dunkirk», porta a casa un po' di premi tecnici, il raffinato «Il filo nascosto» deve accontentarsi della statuetta per i costumi (il minimo sindacale), «Coco» stravince tra i cartoon e il cestista Kobe Bryant, coautore di un corto animato ispirato alla sua lettera d'addio al basket, ringrazia in italiano la moglie italiana. Per consegnare l'Oscar al film dell'anno tornano al Dolby Faye Dunaway e Warren Beatty, l'anno scorso protagonisti del memorabile scambio di buste. Questa volta tutto va liscio, «the winner is...» Guillermo Del Toro. «Sono un immigrato che da bambino sognava ad occhi aperti davanti ai film di Douglas Sirk e Frank Capra e si commuoveva guardando E.T.. Da ex giovane dico ai giovani autori che anche con la fantasia si può raccontare la realtà. Io l'ho fatto, La forma dell'acqua è un film sull'oggi, sulla necessaria condivisione». E qui, il cerchio si chiude.
 

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