Sibilia chiude la trilogia di “Smetto quando voglio”: «I miei ricercatori all'assalto dell'università»

Sibilia chiude la trilogia di “Smetto quando voglio”: «I miei ricercatori all'assalto dell'università»
di Oscar Cosulich
Domenica 26 Novembre 2017, 12:14
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«L'ultimo giorno di riprese, quando ho tolto la giacca di Pietro Zinni, mi sono ricordato il giorno in cui tutto questo è cominciato, quando un ragazzo di Salerno è venuto a trovarmi per farmi leggere la sceneggiatura della sua opera prima. All'epoca nessuno pensava che quello sarebbe stato l'inizio di una saga: un'esperienza lavorativa che è stata anche un percorso umano importantissimo. Noi attori abbiamo collaborato per quattro anni con lo stesso regista e gli stessi produttori: oggi un po' mi commuove pensare che sia finito tutto». Edoardo Leo parte da lontano per raccontare «Smetto quando voglio Ad honorem», terzo e ultimo capitolo della saga diretta da Sydney Sibilia - era lui il ragazzo salernitano di cui parlava l'attore - cominciata nel 2013 e dedicata al gruppo di brillanti, quanto sfruttati e squattrinati ricercatori universitari, approdati all'ultima spiaggia del crimine para-illegale creando «smart drugs» (sintetizzando cioè nuove sostanze psicotrope ancora non poste fuori legge) e spacciandole.

All'originale «Smetto quando voglio», lo scorso gennaio ha fatto seguito «Smetto quando voglio Masterclass», le cui riprese (secondo il metodo tipico dei blockbuster statunitensi) sono state effettuate in contemporanea a quelle del nuovo «Ad honorem» che arriva nelle sale giovedì 30 in ben 350 copie.

«Ogni capitolo della saga è modellato con variazioni di genere cinematografico», spiega soddisfatto Sibilia, «dal tono di commedia pura del primo episodio abbiamo gradualmente alzato il livello di sospensione dell'incredulità, immettendo elementi di cinema d'azione come l'assalto al treno nel secondo capitolo, che finiva rivelando nell'ultima inquadratura un cattivo a tutto tondo, insolito per film di questo tipo, ma diventato credibile».

In «Ad honorem», continua il regista, «siamo nel cinema carcerario, con un thriller in cui è plausibile che il terribile Walter Mercurio interpretato da Luigi Lo Cascio intenda attaccare direttamente l'università La Sapienza con il gas nervino. Ora che la storia è finita mi sento esattamente come quando, da spettatore, ho visto la fine di una saga che ho amato. Ma adesso basta trilogie! Dopo questi tre film corali, con un cast così ricco, voglio potermi concentrare su un solo personaggio e non consiglierei a nessuno d'imbarcarsi in una trilogia. C'è da rimetterci la salute».
 
La saga è comunque già venduta in diversi paesi e sarà anche al centro di diversi remake, sicuramente in Spagna, ancora in trattativa in Usa e Cina, a dimostrare che la formula ha funzionato bene a livello internazionale. In questo capitolo finale Zinni/Leo e il resto della banda, che comprende Valerio Aprea, Paolo Calabresi, Libero De Rienzo, Stefano Fresi, Lorenzo Lavia, Pietro Sermonti, Marco Bonini, Giampaolo Morelli, sono rinchiusi in carceri diversi e tocca al loro avvocato difensore Vittorio (Rosario Lisma) cercare di riunirli perché possano evadere e sventare insieme il piano del perfido Mercurio/Lo Cascio. Ad aiutarli torna inaspettatamente il temibile Murena (Neri Marcorè), loro antagonista nel primo capitolo della saga, di cui ora è rivelato l'inaspettato passato. La più efficace new entry di «Ad honorem», che comprende anche il ritorno di Greta Scarano e Valeria Solarino, è quella di Peppe Barra, qui nei panni di Angelo Seta, direttore di carcere con un amore sconfinato per l'opera, che troverà nel chimico computazionale Angelo Petrelli (Stefano Fresi), il sognato grande interprete della sua messa in scena del «Barbiere di Siviglia».

«La mia vita è dedicata al teatro», ricorda il grande attore napoletano, «quindi per me il cinema è sempre un'avventura. Credo che Sydney mi avesse visto a Salerno nella Cantata dei pastori, mentre io aveo visto, e mi era piaciuto, il primo Smetto, così ho accettato subito il ruolo. Tra l'altro, essendo cresciuto a Procida, ho conosciuto veri direttori di carcere e nessuno di loro era così poetico e appassionato all'arte come quello che ho interpretato: un ruolo che mi è piaciuto moltissimo».
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