Il film d'esordio di Giuseppe Alessio Nuzzo: «Un thriller psicologico la mia sfida»

Il film d'esordio di Giuseppe Alessio Nuzzo: «Un thriller psicologico la mia sfida»
di Oscar Cosulich
Sabato 15 Aprile 2017, 18:29 - Ultimo agg. 19:31
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«Per il mio esordio nel lungometraggio ho deciso di rischiare raccontando una storia non comune attraverso il ma in Italia è poco frequentato», dice il ventisettenne Giuseppe Alessio Nuzzo, laureato in medicina (doveva diventare dentista) e creatore del Social World Film Festival di Vico Equense, parlando di «Le Verità», prodotto da Pulcinella Film e Social World Film Festival nell'ambito di Film4Young co-finanziato dalla Presidenza del consiglio dei ministri - dipartimento della Gioventù e del SCN.

«A me piace molto il thriller psicologico», spiega Nuzzo, «così ho deciso di farlo in Italia, pur con tutti i limiti produttivi». La storia di «Le verità» («inizialmente doveva chiamarsi Le 2 verità, poi ho capito che le verità sono sempre molte di più»), racconta il tormentato ritorno a casa da un viaggio di lavoro in India di Gabriele (Francesco Montanari), che tornando sembra avere acquisito la capacità sovrannaturale di prevedere il futuro. Ovviamente la fidanzata (Nicoletta Romanoff) e il suo migliore amico (Fabrizio Nevola) non danno credito alle sue affermazioni, mentre lui si trova in immediata sintonia con una misteriosa donna incontrata sulla spiaggia (Anna Safroncik).
Il film, che uscirà il 27 aprile, è stato girato a Napoli, Vico Equense e l'ospedale di Acerra nel marzo 2016, in cinque settimane e l'idea, dice Nuzzo, «nasce da una storia realmente accaduta: un mio amico d'infanzia, dopo un incidente con lo scooter, è stato in coma per mesi. Al risveglio aveva una visione distorta della vita prima dell'incidente e sosteneva di aver vissuto cose che nessuno di noi ricordava. Le scene della riabilitazione nell'ospedale ripercorrono cose cui ho assistito di persona in casi simili».

Il film presenta omaggi più o meno evidenti al genere: Montanari interpreta Gabriele Manetti («una lieve storpiatura del nome del regista di Lo chiamavano Jeeg Robot, che con coraggio ha aperto di nuovo la strada al genere») e il ritorno dall'India con poteri esp di Manetti evoca quello analogo di Sordi in «Sono un fenomeno paranormale» di Corbucci. Ma se si chiedono quali siano stati i suoi modelli il regista non ha dubbi: «In me convivono molte influenze diverse, ma su tutte subisco particolarmente il fascino dell'arte figurativa, tanto da aver anche inserito il tema della pittura nel film».

«Quella dell'arte è una passione che mi ha inculcato mio padre», racconta il cineasta, «quando ero bambino, infatti, lui non mi portava al cinema, a teatro e nemmeno nei parchi giochi: con lui andavo alle mostre e nei musei. Questo mi ha influenzato particolarmente nel momento in cui debbo pensare alla composizione dell'immagine. Dal punto di vista cinematografico, visto che in Italia non si fanno da tanto tempo film di genere, sono stato portato a fare riferimento a modelli americani come Inception, tanto che il sorriso finale del personaggio della Safroncik è per me l'equivalente della trottolina del film di Nolan. Ma più in generale, lo dico senza nemmeno sognare di potermi paragonare a loro, sono due i registi che mi influenzano: per la parte estetica Paolo Sorrentino e per la narrazione Giuseppe Tornatore. Ripeto, di loro nel mio film non c'è quasi niente, ma loro sono i miei riferimenti per il modo in cui mi rapporto al mezzo».
 
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