L'ex modella ribelle: «Noi, schiave moderne»

L'ex modella ribelle: «Noi, schiave moderne»
di Francesco Mannoni
Giovedì 28 Settembre 2017, 13:53 - Ultimo agg. 13:54
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«Non avevo mai pensato di fare la modella. Quando mi hanno fermata per strada per offrirmi questa possibilità, stavo studiando per la maturità. All'inizio è stata un'avventura esaltante, che però mi ha condotta fuori strada. Quando mi sono affrancata ho deciso di scrivere per denunciare una situazione insostenibile e aiutare molte ragazze che sono ancora nella mia stessa situazione».

È straordinariamente alta e bella Victoire Dauxerre, ex modella e ora scrittrice che nel libro Sempre più magre (Chiarelettere, 242 pagine, 16 euro) denuncia il mondo della moda come qualcosa di stritolante. Tutte le top model belle e ieratiche con il loro portamento che sembra ignorare la forza di gravità, sono come soffocate da un imperio inumano che le conduce facilmente all'anoressia e spesso alle droghe e al suicidio.
«Le modelle sono donne asservite», afferma Victoire mentre nei suoi bellissimi occhi splende l'orgoglio di scoperchiare un vaso di Pandora pieno di segreti imbarazzanti: «Il desiderio di rendere più bella una modella con abiti destinati alla gente danarosa, si scontra con il comportamento degli stilisti che sembrano odiare le donne, quando le costringono in taglie che stringono il corpo come armature».

Che cosa la rendeva partecipe di questo mondo inizialmente?
«La volontà di corrispondere a certi criteri di bellezza che sono quelli della magrezza estrema che può portare alla morte. Tutti si identificano in questo tipo di eleganza che ritengo sia un problema di ego. Negli anni Ottanta alcune modelle erano delle star come Claudia Schiffer o Laetitia Casta, sempre intervistate al termine delle sfilate. Oggi invece le modelle non hanno più alcuna personalità e al termine di una sfilata vengono intervistati i vari stilisti e i signori dei marchi più conosciuti».

Qual è l'ossessione delle modelle?
«Temo sia la paura d'invecchiare, un timore nei confronti del tempo che passa e ci cambia, che si sente ancora di più vivendo all'interno di un mondo profondamente androgeno. La moda tende a proporre l'idea di un corpo che non è né donna né uomo. Dietro al desiderio di essere secche, c'è la volontà di non complicarsi la vita. Se l'abito che indossi cade perfettamente, sei a posto, mentre se hai un po' di seno costringi a dei ritocchi».

Dando il giusto significato alle parole, l'ambiente della moda è più omertoso o violento?
«Esiste omertà assoluta, ma non si parla di questo, che è una vera e propria violenza nei confronti delle modelle. Ad esempio: non ci si chiama mai per nome. Per tutti io ero solo un pezzo di carne, la francese di 18 anni. È una violenza psicologica e fisica molto forte, perché ero stremata e magrissima, e molte ragazze finiscono nella spirale della droga per reggere ed essere sempre in forma. Anche il rapporto fra ragazze è difficile: si odiano vicendevolmente, e ogni casting è una sfida. Molte ragazze sono pronte a fare di tutto per emergere e pagare il debito con l'agenzia. Un'amica aveva un cagnolino, ed era con altre ragazze nello stesso appartamento: le hanno avvelenato il cucciolo per impedirle di partecipare a un casting che la vedeva favorita».

Che tipo di debito contraggono le ragazze con le agenzie?
«L'agenzia ha anticipato i soldi per mandarmi a sfilare da Parigi a New York; paga l'appartamento, i taxi, il fotografo per il book delle fotografie che per le modelle è il biglietto da visita, ma tutto questo è soltanto un anticipo. Io ho lavorato moltissimo, ma dei centomila euro che avrei dovuto incassare, ne ho preso solo diecimila: il novanta per cento dei miei introiti se l'è preso l'agenzia per rimborso spese e provvigioni».

Questo genere di lavoro ha qualcosa in comune con la schiavitù?
«Sì, è una sorta di schiavitù moderna che ha molti elementi in comune con il mondo della prostituzione. A causa del debito le agenzie dispongono del nostro corpo e lo sbatacchiano da un paese all'altro. Una volta c'è stato un casting che cominciava alle ventitré, un orario molto strano. Dovevamo sfilare in tacchi 18 e con indosso soltanto uno slip: per il resto eravamo nude mentre una quindicina di persone ci guardavano bevendo champagne. E poi le serate organizzate sullo yacht di qualche cinquantenne. È così che molte ragazze cedono ad una forma di prostituzione sia pure di lusso. Di solito sono tutte ragazze molto giovani: all'epoca io avevo 17 anni ed ero già una delle più anziane. Di norma hanno 14, 15 anni. Adesso la legge impone un'età minima di 16 anni: per me sarebbe stato più giusto fissarla a 18».

Che eco ha suscitata il suo libro nel mondo della moda?
«Nessuna reazione. Sanno che c'è e sicuramente l'hanno letto, nessuno però ha mai detto nulla. Da alcune amiche so che quelli che contano mi odiano tutti immensamente. Ho detto la verità, non ho inventato niente e questo li spiazza, ma tacciono per non dare altre chances al mio libro».

 
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