Gino Sorbillo torna a New York e rilancia: «Prima Miami, poi il bis nella Grande Mela»

Gino Sorbillo torna a New York e rilancia: «Prima Miami, poi il bis nella Grande Mela»
di Luca Marfé
Mercoledì 13 Giugno 2018, 15:03 - Ultimo agg. 15 Giugno, 12:43
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NEW YORK - Gino Sorbillo è tornato. Ha negli occhi il guizzo di sempre, quello del genio di una Napoli che vuole farcela anche in America: la sua. Sorride di sogni. È carico, ma al tempo stesso gentile. Come è abituato ad essere, del resto. Come è lui.

Manhattan lo ha accolto srotolando il tappeto rosso delle grandi occasioni. L’evento di inaugurazione del locale di Bowery Street qui se lo ricordano ancora. Un fiume di gente ed il sindaco Bill De Blasio in primissima linea, addirittura ad infornare le pizze assieme a Gino. Per poi mangiarle con le mani, “a portafoglio”.

Una festa, insomma. Una festa che continua sin da allora.
 


Ma Sorbillo è per definizione un visionario, un sognatore. E non è di certo qui per fermarsi né per accontentarsi.
Gino, infatti, è tornato per rilanciare.

«Tutto questo per me significa tantissimo. Finalmente mi sto godendo New York. L’ultima volta è stata una meravigliosa follia, ma tante pressioni, tutto di corsa. Ora no, è diverso. Sono riuscito a leggere tra le righe di questa città. A vedere e a capire più cose. E ho una gran voglia di continuare!».

Sorride, si emoziona un po’. Guarda fuori dalla vetrina e probabilmente gli andrebbe di rituffarsi tra i colori e i volti della Grande Mela. Poi, però, riprende di colpo.

«Voglio essere sempre più presente, voglio esserci. Sono tante le novità newyorkesi e statunitensi all’orizzonte. Da un lato, idee che sono già progetti. E, dall’altro, la necessità di entrare sempre più nella testa e nella mentalità degli americani, un po’ com’è successo con Milano».

È sincero, non sarebbe capace di essere altrimenti.

«Anche lì ho fatto le cose un po’ al contrario. Nel senso che sapevo poco della città, mi attirava, ho aperto la prima sede che è stata apprezzata, ma che al tempo stesso si è trascinata dietro le critiche di chi pensava che una napoletanità così forte potesse essere eccessiva, potesse non piacere. La pizza che trasbordava dal piatto, la confusione tipica delle pizzerie nostre. Qualcuno si era addirittura ritrovato a scrivere che sarebbe stata un flop. Ebbene, da quel presunto flop, i miei viaggi su Milano sono diventati più frequenti, sono entrato in sintonia con la città, con un pubblico straordinario, e adesso, nella piazza che da tutti è considerata il trampolino di lancio per l’Europa, di Sorbillo ce ne sono ben quattro».

E, tornando a New York, la sua ricetta.

«Ci vuole un progetto chiaro, molto identitario. Senza non si va da nessuna parte. Il locale funziona, ci sono delle cose da correggere, ma sono felice di registrare che gran parte dell’offerta sia di assoluto gradimento. Si può sicuramente migliorare e per me migliorare significa quasi sempre togliere. Quindi, in questo caso specifico, il menù diventerà ancora più easy, più semplice. La mentalità deve essere legata a doppio nodo a quella dei Tribunali, non a quella di un locale chic della Grande Mela. Il mio Sogno Americano è stato quello, in fondo. È stato casa mia».



New York che in termini di costi, di offerta e di concorrenza non è una città facile: «Il quadro è vasto ed interessante, c’è una grande competizione. Tuttavia, un po’ come accadeva anche a Napoli, mentre prima il pizzaiolo era abituato a lavorare da solo e a testa bassa, magari guardando in cagnesco il collega di turno o addirittura gli stessi clienti per il timore che potessero rubargli i segreti della lavorazione, adesso per fortuna e forse anche per merito di alcuni questo mestiere si è aperto al mondo. Mondo che, a sua volta, si è aperto ai pizzaioli».

Strizza evidentemente l’occhio all’Unesco e continua: «C’è uno scambio continuo di informazioni, di prodotti, di promozioni e persino di personale. Ognuno di noi, nel proprio locale, mette la propria anima, fa la propria pizza, imprime il proprio stile. Dico una cosa semplice, ma non banale: si possono utilizzare pure gli stessi ingredienti, ma la pizza è e sarà sempre diversa, a seconda delle temperature, dei macchinari, dell’umidità, di un mucchio di cose».

Aspetti che all’estero si fanno forse ancor più rilevanti. Il cliente americano, o l’italiano espatriato per una settimana o per una vita intera, è alla ricerca delle atmosfere, date a loro volta anche dalla persona e dal personaggio.
Diventate un po’ testimonial di voi stessi, insomma.

«È vero. Ed è un aspetto molto interessante. Lasciami dire che i clienti mangiano anche “una fetta di noi”, del nostro essere. La nostra diversità, personale e professionale, è la nostra grande ricchezza. Non dobbiamo sforzarci di fare la pizza degli altri, possiamo prendere ispirazioni, ma ognuno deve poi metterci del proprio. E magari finisce col fare persino di meglio».

Si rivolge poi, quasi naturalmente e con fare delicato, ai tanti giovani di questo mestiere.

«Ai ragazzi dico che l’impegno ci deve essere. E che deve essere tanto. Innanzitutto, si ha a che fare con una cosa molto preziosa che è il cibo, che i clienti introducono nel proprio corpo. Aspetto cui dare un’importanza infinita. E poi devono tendere a raccontare la propria strada, il proprio quartiere, il proprio territorio. La città, la campagna, quello che hanno visto, sentito, sopportato. Secondo me, nella pizza di ciascuno c’è tutto questo, ci dovrebbe essere tutto questo. Ci sono messaggi positivi e c’è anche la sofferenza di un percorso che ognuno di noi ha. Perché quasi nessun pizzaiolo ha avuto una vita facile, pure il più bravo o il più famoso del mondo».



«La pizza resta napoletana, ma diventa territoriale». E si spiega meglio. «Questo disco di pasta è l’unione di testa, mani e cuore. Di sentimento, di ragionamenti, di manualità. Poi, però, c’è il buono che possiamo avere sotto casa, ma ci sono anche i prodotti dell’Irpinia, del Cilento, dell’Alto Adige. È sempre pizza napoletana che si dimostra gentile e capace di accogliere qualità e varietà. Non è certo un tradimento della tradizione. I pizzaioli, con la sensibilità che hanno, devono farsi appassionare dalla ricerca di questi prodotti. Devono portarli sulle proprie pizze, così da poter addirittura salvare questa o quella produzione. Perché no, magari l’economia di quei luoghi e di quelle facce che rappresentano le loro radici. È questo che facciamo: noi, attraverso la nostra arte, raccontiamo la storia di altri uomini e di altre donne che hanno permesso a certi prodotti di sopravvivere. Ci prendiamo alla fine tutto il merito, ma a quel piccolo capolavoro hanno preso parte decine di persone. C’è un mondo dietro a tutto questo».

Indica il piatto con una margherita fumante, si commuove un po’. E annuncia il menù nuovo: «La prima novità è una pizza ai quattro formaggi: Emmenthal svizzero, bufala, Parmigiano Reggiano stagionato 36 mesi ed un cacio ricotta di capra davvero straordinario, siciliano. Un’altra pizza è bianca con i funghi misti; molto fresca, con lo speck. Poi ancora una con una base di fiordilatte e con sopra pomodoro, uovo strapazzato al momento e, infine, una volta tirata fuori dal forno, pancetta pepata. Una sorta di pizza “alla carbonara” che potrebbe chiamarsi “Al Purgatorio”, non ho ancora deciso. E per concludere la pizza fritta salame e prosciutto cotto che non ha di certo bisogno di presentazioni, neanche qui».

Pizza e America, America e pizza. «L’America mi piace, per molti versi, sta parecchio avanti. Se fai bene, puoi andare molto lontano; se fai male, puoi farti male per davvero. Le persone, così come ti premiano se riesci a lavorare bene, così ti possono facilmente condannare. Essere su piazza qui è una grande responsabilità. Per me stesso e per l’immagine della mia città. Ti mettono in condizione di poterti esprimere, di arrivare, di lavorare, di dire “eccomi qua, vi faccio vedere cosa so fare”. Poi però devi portare un progetto chiaro ed essere un professionista serio. Un pizzico di fortuna ci vuole sempre, certo, e anche indovinare la zona non è cosa semplicissima».



Si lascia andare ad una riflessione spontanea sull’Italia. Un’Italia talvolta capace di generare attorno a se stessa attriti inutili e controproducenti.

«Io in Italia ci sono nato e ci sto. E all’Italia, nel mio piccolissimo, credo di aver offerto un contributo e parecchie energie. Quello che non mi piace tanto, specie quando sono fuori e provo ad osservarla da lontano, è prendere atto di quanto le persone tendano a parlare degli altri. Troppo. Già, questa cosa proprio non mi piace. Credo che ognuno debba fare il proprio lavoro, debba cercare di essere sereno con tutti, anche con quelli che ti criticano. Critiche che, se mosse con cognizione e soprattutto in buona fede, si rivelano spesso edificanti e costruttive. Da noi, invece, troppi sottoboschi, azioni e piccole cattiverie che si possono facilmente pianificare a tavolino. Nella “migliore” delle ipotesi antipatie e simpatie. E, per concludere: in Italia se sei un signor nessuno magari qualcuno una mano te la tende pure. Ma se riesci, non dico a diventare qualcuno, ma anche soltanto a fare delle cose, ottieni spesso l’effetto contrario, ti ritrovi il mondo contro. Io francamente credo di aver avuto un’evoluzione. Sono stato preso in giro a lungo per il mio fare da sognatore, ma di tutta risposta non ho fatto altro che continuare a sognare. Tutto qua. Sono molto legato al mio passato e ho grande rispetto per chiunque faccia o comunque ruoti attorno a questo mestiere. Sono rimasto quello che se deve chiedere una cosa, a chiunque la debba chiedere, si muove in punta di piedi».

In punta di piedi. Di passi, però, ne ha mossi davvero tanti. E questi sono i prossimi. «Miami Beach. Un nuovo covo della napoletanità, un nuovo sogno. Presto, oramai ci siamo. Spero per la fine di luglio. Per poi rilanciare ancora: a New York, entro la fine dell’anno, potremmo fare il bis nel cuore pulsante di Manhattan».


Fotografie di Luca Marfé

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