«Io, cento giorni in un ospedale di Napoli per una diagnosi: risonanze guaste e un bagno per 20 persone»

«Io, cento giorni in un ospedale di Napoli per una diagnosi: risonanze guaste e un bagno per 20 persone»
di Nunzia Marciano
Lunedì 16 Ottobre 2017, 16:48 - Ultimo agg. 20:37
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«Aspetti, prima ancora di iniziare, voglio precisare una cosa: la colpa del pessimo sistema sanitario della Campania non è del personale, qui ci sono veri e propri santi, il problema è che lavorano in un inferno. In cento giorni ho avuto modo di vederlo con in miei occhi». Inizia così, con una premessa ben precisa, l'intervista a P. R. 38 anni, tecnico informatico napoletano, da cento giorni ricoverato nel reparto di Medicina interna dell’ospedale Cardarelli di Napoli, che decide di raccontare la sua disavventura ma chiede di non essere fotografato.

Una degenza lunghissima la sua, soprattutto se si considera che ad oggi, dopo più di tre mesi, la diagnosi - poliarterite nodosa cutanea - non è ancora certa ma solo «molto probabile». Cento giorni, che sarebbero potuti essere molti di meno se solo P. fosse stato in un’altra città, di un’altra regione, e non della Campania, «dove», racconta, «ci sono non più di 14 ambulanze operative per 3.500 paziente e per fare delle analisi in un altro padiglione possono volerci anche tre giorni, senza contare il tempo per i risultati».

Com'è arrivato a restare cento giorni qui, al Cardarelli?
«Sono arrivato l’8 luglio per un problema alle gambe che poi si è rivelato essere una patologia rarissima, con una sintomatologia altrettanto rara ed è stata una scoperta che hanno fatto qualche giorno fa. Tenga presente che di mezzo c’è stato agosto, e quindi le vacanze...».

Cento giorni: quali sono gli episodi clinici più paradossali cui ha assistito?
«La prima cosa a cui ho assistito è forse una delle peggiori: per spostarsi da un padiglione all’altro, è necessario il trasporto in ambulanza e qui nel Cardarelli che io sappia, ci sono solo 14 mezzi per circa 3.500 pazienti. Può ben immaginare quanto questo dilati incredibilmente i tempi anche per una semplice Tac. In più il primo esame di biopsia che ho fatto mi ha portato a una lunga attesa perché dall’8 al 22 agosto le sale operatorie sono chiuse e poi sono state aperte sino alle 13: è stato solo grazie alla caparbietà di una dottoressa che mi segue, se il 22 agosto, alla riapertura, mi hanno fatto la prima biopsia, altrimenti starei ancora aspettando. Oggi per esempio (sabato, ndr) ho fatto una risonanza, e avrei dovuto farne anche una totale (body) ma la bodista non c’è e quindi dovrò aspettare lunedì».

Cento giorni, tantissimi se si immagina di doverli trascorrere in un letto di ospedale senza sapere neppure perché. Cosa ha visto che vuole raccontare?
«Ho visto innanzitutto dei bravi professionisti lavorare con mezzi pessimi e in condizioni assurde, addirittura alcuni comprano autonomamente termometri, perché i pazienti o i loro familiari li rubano. E non solo quelli: spesso rubano federe di cuscini, lenzuola o pannoloni. E ho visto anche pazienti incivili, per usare un eufemismo: non capiscono che qui è un inferno, che avere solo tre infermieri per 30 pazienti o un solo OSS (operatore socio sanitario, ndr) rende tutto più complicato. Ho visto anche persone abbandonate dai propri parenti e questo, lo devo dire, è la cosa peggiore che ci possa essere... Un mio vicino di stanza è morto di malinconia e non per una patologia, perché abbandonato dai figli. Ho visto “personaggi” aggirarsi per i reparti, spacciarsi per infermieri e poi essere cacciati perché non avevano nessuna qualifica, ho visto venditori di calzini (e uno lo abbiamo incontrato anche noi salendo...), di Santini e una volta persino uno che vendeva le sigarette. In un ospedale! Giù c’è una sola guardia giurata che deve controllare tutto, soprattutto i familiari dei pazienti che pretendono di poter salire in reparto in qualsiasi momento, infischiandosene dell’esistenza di un orario di visite o addirittura del giro dei medici e ogni giorno gli stessi medici devono combattere anche con questo. Ah, e per concludere una volta mi hanno persino fatto una proposta “hot”...».

Hot? Di cosa parla?
«Beh, a parte i venditori della qualunque, qui in reparto girano anche “sedicenti infermiere private o badanti” che offrono lavaggi del corpo, di tutto il corpo, “particolari”, al prezzo di 10€».

Dice sul serio?
«Sì, certo: mi hanno approcciato facendomi appunto questa proposta. E non sono stato di certo l’unico. Io ho rifiutato ma non è stato raro vedere queste donne allontanarsi con dei pazienti e poi tornare dopo 10/15 minuti».

È sconcertante, davvero... ad ogni modo, lei è stato ricoverato in giorni di agosto caldissimi. Possiamo solo immaginare cosa possa aver significato. Quali sono i disagi maggiori che ha dovuto subire?
«Beh, uno per tutti è il bagno: qui c’è un solo bagno per 10 stanze, in ognuna ci sono almeno due pazienti, a cui aggiungere i pazienti della stanza con le barelle, di emergenza, quella di transito in attesa del letto... Insomma, per un solo bagno siamo circa 20 persone. Le lascio immaginare da sola i disagi».

Proviamo a fare un calcolo: quanti giorni di degenza avrebbe potuto risparmiare in un sistema sanitario “normale”?
«Premettendo che la diagnosi sarebbe stata complicata ovunque, quando mi hanno ricoverato sono stato sei giorni fermo in Pronto soccorso dove mi hanno fatto solo gli esami di routine: al sesto giorno mi hanno trasferito in reparto anche perché in Pronto soccorso eravamo 81 persone in un posto che può contenerne 30; a fine luglio si è rotta una risonanza e non hanno potuto farmi la risonanza appunto, per 10 giorni; i 14 giorni di chiusura delle sale operatorie, dall’8 al 22 agosto, e io non potevo fare le biopsie; la carenza di ambulanze per cui si dava precedenza a casi più gravi, mi è costata credo almeno cinque giorni in più di attesa. In tutto almeno 35. Un terzo, in pratica avrei potuto risparmiarmi più di un mese».

Quali sono ora le sue condizioni di salute?
«Pare che abbiamo scoperto la mia patologia e la cura soprattutto, grazie anche alla consulenza di una dottoressa del Policlinico bravissima, come del resto le dottoresse che mi seguono, ma dovrò fare altre analisi prima di capire quando potrò andar via. Spero presto: è stata un’esperienza devastante ma ho visto anche tanti bravi medici fare il loro lavoro nonostante tutto e questo a volte da fuori non lo si apprezza, e si pensa che tutto il sistema sia pessimo e invece non è così. E da dentro vedi tante cose...».
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