I giovani tra Nps e Cannabis senza strategie di prevenzione

di Giovanni Serpelloni
Venerdì 4 Agosto 2017, 08:37
5 Minuti di Lettura
La lettura, ma soprattutto l'interpretazione della relazione al Parlamento sullo stato delle tossicodipendenze nel nostro Paese, impegna sempre notevolmente chi si occupa professionalmente di queste cose e colpisce la grande quantità di dati che vengono prodotti ogni anno ma anche lo scarso utilizzo successivo. Mi riferisco al fatto che a fronte di aumenti a mio avviso preoccupanti di consumi di cannabis (soprattutto nelle giovani generazioni) di eroina e di ricoveri in pronto soccorso per intossicazioni acute, l'allarme non fa poi scattare lo opportune reazioni concrete come dovrebbe. Soprattutto non conseguono programmazioni, azioni durature, sulla base dei riscontri epidemiologici, che possano dare risposte concrete a quanto rilevato dalle ricerche scientifiche. Sembra esistere una sorta di cinismo, a cui qualcuno forse si è anche abituato, che a fronte delle migliaia di giovani e relative famiglie coinvolte in questi drammi, ci fa leggere questi dati senza dover poi chiederci «ma che cosa possiamo e dobbiamo fare?». 

L'uso di cannabis continua il suo aumento tra le giovani generazioni, cosi come l'eroina. Aumentano anche i ricoveri in pronto soccorso per intossicazione acuta da cannabis (e per fortuna che si tratta di una droga «leggera»). L'andamento dei ricoveri globali è crescente (+4%), in particolare gli andamenti relativi ai minori mostrano un aumento considerevole (meno di 15 anni: +37,5%; 15-17anni: +65%; minori: +58%). Dati molto chiari per chi li vuole leggere nel verso giusto. 

Oltre 4 milioni e mezzo di persone in Italia sono coinvolte nell'assunzione di queste sostanze, oltre 6.000 i ricoveri, circa 33.000 le denunce, oltre 71.000 kg di droghe sequestrate e adesso (ormai da qualche anno) arrivano anche le Nps (nuove sostanze psicoattive) acquistabili on line da qualsiasi ragazzo minimamente esperto di internet. 

Circa 86.000 gli studenti hanno utilizzato almeno una volta nella vita Nps (comprendendo catinoni sintetici, ketamina e/o painkillers), pari al 3,5% di tutti gli studenti italiani 15-19enni. Circa 90.000 studenti fanno uso di cannabis quasi ogni giorno. Il 14% degli studenti consumatori di sostanze illecite durante l'anno è anche policonsumatore. 

Abbiamo ragione di essere preoccupati? Forse si, ma ancora più preoccupati e forse un po' delusi lo siamo dall'inerzia delle istituzioni e dei vari governi di fronte a queste cifre da capogiro. 

Ma qualche segnale positivo di contrazione del fenomeno lo stiamo vedendo. L'uso di cocaina, di allucinogeni e di amfetamine va calando, segno che allora non tutto è perduto e che è possibile ridurre e contrastare questi trend al rialzo. 

Un altro dato in particolare fa riflettere sugli attuali modelli di cura e di contatto precoce di queste persone: il tempo tra il primo consumo e il primo trattamento è di 6 anni. Ciò significa che queste persone abbandonate a se stesse passano un lungo periodo prima di arrivare a maturare la consapevolezza di potersi curare e interrompere l'uso delle droghe, dando il tempo a queste sostanze di compromettere irrimediabilmente le strutture del loro cervello, la sua funzionalità nel periodo più importante del loro sviluppo (cioè l'adolescenza), compromettendo cosi, molto spesso, il loro futuro e la loro spettanza di vita oltre che le loro potenzialità. 

Ma a fronte di questo ritardo di accesso alle cure esiste un piano di contatto precoce di questi «malati» nel nostro Paese? Vi sono programmi strutturati che abbiano come obiettivo quello di ridurre questo tempo di latenza e poter curare, recuperare e valorizzare queste risorse umane di intelligenza e creatività presenti in questi giovani? Purtroppo la risposta è no. In Italia (al contrario della maggior parte dei paesi europei e di oltreoceano) i cosi detti programmi di prevenzione e contatto precoce di early detection, non sono utilizzati. Si aspetta con pazienza e quasi rassegnazione che la persona maturi la sua malattia nella sua solitudine e disperazione e formuli la cosi detta «richiesta di aiuto» da solo, perdendo cosi una opportunità di cura precoce e la possibilità di interrompere quanto prima questa spirale negativa. Negli Stati Uniti esistono ed abbiamo studiato metodologie, alla portata anche del nostro sistema sanitario, in grado di fare diagnosi dei così detti fattori di vulnerabilità per le dipendenze, già nella fascia di età 46 anni. Tutto questo per poter poi mettere le famiglie in una condizione di poter intervenire precocemente con interventi educativi (chiaramente non farmacologici) affinché quando queste persone vulnerabili incontreranno per la prima volta l'alcol o le droghe (e in particolare la cannabis) siano in grado di avere la giusta resilienza per non intraprendere percorsi pericolosissimi non solo per loro ma anche per tutta la comunità che essi frequentano. 

La rete assistenziale italiana appare a prima vista molto articolata: 638 sedi ambulatoriali SerD (7.186 operatori impiegati nei SerD nel 2016) e 917 strutture socioriabilitative private accreditate (comunità terapeutiche) ma questi operatori sono per la maggior parte abbandonati a se stessi, spesso frustrati dalla discriminazione che molte volte colpisce loro stessi come i loro pazienti, con risorse scarse che sono andate negli anni riducendosi a fronte di un aumento dei pazienti in carico. Purtroppo molto spesso anche gli approcci scientifici di base risentono di vecchiaia. Mentre nel mondo il problema delle dipendenze viene affrontato con un forte orientamento alle neuroscienze e i modelli clinici e riabilitativi vengono integrati e guidati da questo, in Italia vi è una sorta di resistenza e refrattarietà a questo approccio che sconta fortemente anche la stessa ricerca scientifica. Uno dei più grossi problemi riscontrati nel nostro Paese a questo proposito è proprio quello che le strategie e le politiche antidroga risentono molto di più degli orientamenti ideologici e molto meno delle evidenze scientifiche al fine di strutturare piani e programmi di intervento aggiornati, scientificamente basati, concreti ed efficaci. 

Anche la prevenzione dell'infezione da HIV nei tossicodipendenti scricchiola. Lo si capisce da un dato sconcertante e cioè che solo poco più del 30% delle persone tossicodipendenti in cura presso i SerD vengono testati per valutare la presenza di infezione. Questo dato dimostra come sia calata l'attenzione per il problema e non vorrei che qualcuno provasse ad addossare la responsabilità di questo mancato monitoraggio ai pazienti. 

Infine, perché sia chiaro a tutti, nessuna persona tossicodipendente deve essere discriminata né tantomeno perseguita per questo suo comportamento. Il carcere sicuramente non è un luogo di cura per questi malati mentre è idoneo per gli spacciatori e i trafficanti che possono trovare in quell'ambiente tutto il tempo per riflettere sui loro comportamenti e per riabilitarsi. 

Ecco, oggi per la ventesima volta abbiamo fotografato nei dettagli il fenomeno droga in Italia. Ora speriamo che questi dati e questi studi possano far muovere anche qualche coscienza e non solo provocare la benemerita opera di alcuni giornali che ostinatamente continuano a voler sollevare pubblicamente il problema nella speranza che qualcosa cambi anche nell'impegno nei nostri decision makers politici.
© RIPRODUZIONE RISERVATA