Stese e baby narcos, Napoli città teatro di guerra

di Isaia Sales
Martedì 13 Marzo 2018, 08:26 - Ultimo agg. 09:58
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Due notizie sul fronte dell’ordine pubblico a Napoli. Da un lato continuano le “stese” in diversi quartieri della città. Dall’altro la magistratura ha reso definitiva la misura dell’allontanamento dei figli di una coppia di spacciatori che li avevano coinvolti nelle loro attività criminale, togliendogli la potestà di genitori per i prossimi 40 anni.

Andiamo con ordine. L’altra sera si è verificata una nuova “stesa” alla Pignasecca, nel cuore della città. Attorno alle 22.30 sono stati esplosi almeno venti colpi con diverse armi da fuoco mentre per strada c’erano ancora molte persone che uscivano dalle pizzerie o erano dirette alla vicinissima stazione di Montesanto. Già sabato notte erano stati esplosi altri colpi (“solo” quattro i bossoli trovati a terra) durante un raid nella stessa zona. E ad inizio di marzo un uomo di 74 anni era stato ferito da alcune schegge di proiettile finite nella sua abitazione (al secondo piano) nel quartiere di S. Giovanni a Teduccio durante una “stesa” notturna. 
Dunque, se nel corso degli ultimi due anni si sono verificate più di cinquanta “stese”, se sono continuate anche quest’anno dopo lo scompaginamento di alcune bande giovanili che le avevano inventate, se i quartieri coinvolti sono dislocati in diverse parti della città, allora vuol dire che siamo di fronte ad una modalità non estemporanea d’azione criminale, non usata esclusivamente dai giovanissimi violenti per farsi strada nelle gerarchie criminali, ma ad un metodo permanente nella lotta tra le varie bande camorristiche per il controllo delle vecchie e nuove piazze di spaccio della droga. Insomma, le stese sono state “adottate” da tutti i clan della città, vecchi e nuovi, dimostrandosi una tattica militare più congeniale alla guerriglia urbana che sta sostituendo la vecchia conflittualità nella narco-città in cui si è trasformata Napoli nell’ultimo ventennio. Quasi a sancire un’altra fase della storia della camorra partenopea. 
Proviamo a vedere quali sono le possibili conseguenze di questo nuova modalità di conflitto. Se durante tutta la fase precedente lo scontro tra bande riguardava essenzialmente i diversi e contrapposti membri di esse, oggi il conflitto da individuale e personale si sta trasformando in territoriale. Prima il bersaglio principale dello scontro erano esclusivamente gli affiliati al clan nemico. Certo, in alcune fasi si è arrivati anche ad ammazzare i familiari e i conoscenti degli appartenenti ai clan avversari, pur non essendone membri effettivi. E spesso venivano colpite vittime innocenti negli angusti spazi dei vicoli e dei quartieri della città teatro degli scontri armati. Ma in ogni caso erano vittime non previste, accidentali, dovute all’imperizia o al disinteresse delle conseguenze delle proprie azioni, nell’obiettivo prioritario di colpire (a tutti i costi) i propri nemici. In definitiva, la guerra si sostanziava nell’eliminare quanti più soldati dell’altro esercito. Da un po’ di tempo stanno cambiando le regole di “ingaggio”. Si colpisce un quartiere (un rione, un vicolo, una piazza) per colpire il potere di chi lo controlla. Come se il quartiere fosse tutt’uno con chi lo domina dal punto di vista criminale e militare. Colpendo cose e persone di quel quartiere si lancia un messaggio di intimidazione a chi ne ha la potestà. Così gli abitanti di quel territorio, che per la stragrande parte non sono coinvolti nelle attività criminali, si trasformano in civili durante un conflitto militare: colpendoli si dimostra che l’esercito avversario non è in grado di tutelarli. 

Siamo di fronte, cioè, a un fatto inaudito nella storia della criminalità: chiunque si trova nel quartiere del nemico diventa di per sé un nemico, al di là del fatto che sia o meno membro del clan avversario. Tutto il quartiere diventa teatro della guerra, comprese le persone e i palazzi in cui abitano, come “anime morte” di gogoliana memoria, strettamente legate come proprietà privata ai feudatari che vi dominano, per cui è legittima qualsiasi rappresaglia nei loro confronti. Lo scontro tra i clan finisce in questo modo per allargarsi strutturalmente ai civili e agli estranei, questa volta non casualmente, non per errore ma come «estensione del dominio della lotta» per parafrasare il titolo di un libro di Houellebecq . 

Al tempo stesso questa adozione diffusa del metodo della “stesa” potrebbe lasciar presupporre che i giovani violenti, che per un periodo hanno cercato di rottamare la vecchia camorra, tornano a cercare la loro ascesa criminale dentro le bande più strutturate, dopo aver verificato che la loro sopravvivenza in autonomia era quasi impossibile. Insomma, i vecchi clan stanno assorbendo l’ansia di riuscita dei giovanissimi all’interno delle loro attività storiche. E i giovanissimi hanno portato in dotazione la loro specifica modalità d’agire, basata sulla paura da incutere all’avversario e al suo territorio piuttosto che sul consenso e sul “rispetto”, modalità tipica delle forme gangsteristiche e non di quelle mafiose. Le vecchie famiglie, d’altronde, hanno tutto l’interesse a riassorbire la contestazione criminale giovanile e a governarla. E al posto di provare a limitare la loro violenza anarchica (per non attirare sulla città e sui loro affari un’attenzione scomoda delle forze dell’ordine e della magistratura) ne adottano le modalità. Quando i minorenni vengono associati agli adulti nelle bande di camorra, portano in dote la loro particolare violenza senza regole e senza limiti. Non vengono associati per completare la loro educazione criminale e per limitarne l’aggressività permanente, ma per portare dentro i clan il loro metodo e metterlo in atto. Insomma, in alcuni clan storici stanno prevalendo i metodi delle bande criminali tipiche delle periferie delle città europee e sudamericane. I giovanissimi non hanno conquistato il dominio sui vecchi clan, ma ne stanno profondamente condizionando l’organizzazione.

Per quanto riguarda, infine, la decisione della magistratura sui figli della coppia di spacciatori del Pallonetto di S. Lucia aderenti al clan Elia, sottratti per sempre ai loro genitori, andrebbe avviata una discussione più ampia. Perché al di là di ciò che ciascuno di noi pensa della bontà e utilità di tale misura, è evidente che la città di Napoli non è in grado di farsi carico dei suoi figli che nascono in un ambiente criminale, e non riesce a trovare un’altra strada per consentire a dei bambini di vivere gli affetti naturali senza le conseguenze criminali di essi.
 
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