Se tra Putin e Trump
il feeling non c’è più

di Mario Del Pero
Giovedì 13 Aprile 2017, 08:05
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Le tensioni tra Russia e Stati Uniti sembrano crescere di giorno in giorno in una spirale viziosa inarrestabile e assai pericolosa. È un gioco delle parti, come sostengono taluni? O siamo di fronte a qualcosa di più rilevante e strutturale? Soprattutto, come si mette in asse quanto sta avvenendo con mesi di campagna elettorale durante i quali l’ostentato elemento di discontinuità promesso da Trump era quello di abbandonare la linea dell’ostracismo verso Mosca in favore di una nuova, intensa collaborazione russo-statunitense? Diverse risposte possono offerte.

Il punto di partenza, però, deve essere un elemento di contesto troppo spesso negletto. Il presunto isolazionismo di Trump, così enfatizzato da tanti commentatori e critici del presidente, non è in realtà mai esistito. Posto che, come gli storici sanno bene, la categoria d’isolazionismo è tanto abusata quanto poco utile per capire la politica estera degli Stati Uniti, quello di Trump non era un invito a un irrealistico e impossibile isolamento dalle vicende mondiali. Si trattava, piuttosto, di un discorso nazionalista e unilateralista, centrato sulla rivendicata necessità di tutelare e promuovere con qualsiasi mezzo l’interesse nazionale in un’arena globale presentata come anarchica e brutale. Ciò voleva (e vuol) dire accettare la competizione e la contrapposizione con le altre principali potenze laddove gli interessi di queste e degli Usa collidano o non siano complementari.

Ci sarebbe molto da dire sulla patente, rozza schematicità di questa lettura. Il punto, però, è che Russia e Stati Uniti d’interessi confliggenti ne hanno molti, a partire proprio dal Medio Oriente. Che vi sia un elemento quasi naturale nel loro antagonismo di potenza, sul quale incidono peraltro elementi residuali della lunga contrapposizione della Guerra Fredda (in ambito nucleare il sistema odierno rimane ad esempio bipolare) e, ancor più, l’assenza di quelle forme d’interdipendenza profonde – finanziarie e commerciali - che al contrario cementano le relazioni tra la Cina e gli Usa. Invocare la necessità di un reset delle relazioni con Mosca è insomma più semplice che realizzarlo, come già Obama ebbe modo di verificare. Se dal contesto ci spostiamo alla specificità dell’oggi, quattro possibili spiegazioni aggiuntive possono essere offerte.

La prima si lega alla Siria. Dove evidentemente l’amministrazione Trump ambisce ad avere un ruolo maggiore in un processo negoziale nel quale Washington è stata progressivamente marginalizzata. Le pressioni americane, e l’insistenza sulla dipartita di Assad, sembrano avere anche questa funzione. La seconda chiave di lettura rimanda agli equilibri interni all’amministrazione e alla presenza di una fazione atlantista e anti-russa influente, fattasi nelle ultime settimane molto più assertiva. Una fazione pare ben rappresentata in quei servizi d’intelligence che da tempo contestano le aperture trumpiane a Mosca e dai quali sono giunte ai media tante delle soffiate sulle presunte ingerenze russe nella campagna elettorale del 2016.

E questo ci porta alla terza, possibile spiegazione, che è invece tutta politica. Dentro il partito repubblicano uno dei principali elementi coesivi è proprio l’avversione alla Russia e a Putin che in taluni casi, si pensi al senatore e candidato presidenziale del 2008 John McCain, raggiunge livelli quasi parossistici (McCain è da sempre sostenitore di un ulteriore allargamento della Nato fino a includere Ucraina e Georgia). Alzare il tono della polemica con Mosca permette in teoria di ricompattare un partito diviso e lacerato da questi primi, sconclusionati mesi di presidenza, mettendo i democratici in un angolo (cosa che è effettivamente accaduta in seguito al bombardamento di venerdì scorso in Siria).

Quarto e ultimo, se in qualche misura di gioco delle parti si tratta - e se vogliamo fare una piccola incursione nella fantapolitica - potrebbe esservi un legame con la vicende delle intromissioni, in parte acclarate, della Russia nella campagna elettorale del 2016.
Se letta in questa chiave, la linea di Trump ambirebbe a depotenziare preventivamente quei repubblicani che vorrebbero avviare inchieste indipendenti e indicherebbe a Putin che a dispetto di tutto i rapporti di forza continuano a pendere inequivocabilmente a favore degli Stati Uniti. Perché troppo spesso, negli ultimi anni, si è dimenticato questo basilare elemento di realtà: che nelle relazioni russo-statunitensi una delle due parti continua a essere nettamente superiore all’altra.
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