Se l’instabilità bussa
alla porta del Quirinale

di Mauro Calise
Lunedì 14 Agosto 2017, 08:08
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Per i prossimi mesi, il copione sarà obbligato. Almeno fino alla fatidica data delle elezioni, i leader di partiti e partitini ripeteranno la stessa manfrina: daranno la colpa agli altri, e prometteranno la luna. Tutti, ovviamente, giurando che ci riusciranno da soli. Non solo i grillini e il Pd, che sproneranno i loro elettorati a raggiungere l’irraggiungibile asticella del 40 per cento. Ma anche quelli più piccoli – tipo la Lega di Salvini – rifiuteranno sdegnosi di allearsi, con la formula «ghe pensi mi». Dato, però, che l’aritmetica – notoriamente – non è un’opinione, il giorno del verdetto – e del giudizio – si troveranno inevitabilmente alle prese con il rebus delle alleanze. 

Cioè con l’obbligo di fare quello che, fino al giorno prima, tutti avevano giurato che mai e poi mai avrebbero fatto. E a quel punto non è per niente certo che ci riusciranno. Allora, come la mettiamo? Anzi, come la metteranno? O meglio, costituzione alla mano, come la metterà? Perché lo sanno tutti benissimo – anche se fanno finta di non saperlo – a quel punto il boccino passerà nelle mani del Capo dello Stato. E sarà un boccino bollente. Intendiamoci. Nella travagliata storia della nostra democrazia, ne abbiamo viste di peggiori.

Questa non è la prima volta in cui i partiti si trovano impotenti, incapaci di trovare la quadra, di decidere a chi spetti il timone per uscire dalla tempesta e portare in salvo la Repubblica. È già successo, ripetutamente, in passato. In tutte queste occasioni, ci ha salvato la fisarmonica. Il meccanismo per cui si allarga – nell’immagine di Giuliano Amato – il ruolo del Quirinale, che fa da supplente e da garante al vuoto di iniziativa politica delle leadership dei partiti.

La gestione di Napolitano resta, in proposito, esemplare, e ha fatto scrivere a molti giuristi di una trasformazione del nostro sistema, rendendolo molto simile al semipresidenzialismo francese. Oggi, quella stagione appare molto lontana. Ma sono passati meno di sei anni, e si stanno creando di nuovo le condizioni per un ritorno del presenzialismo presidenziale. La prima condizione favorevole è il declino della figura del Premier, e l’assenza di un candidato forte e visibile pronto a balzare su quel podio. Quando Berlusconi era al massimo della propria popolarità, o quando Renzi sembrava destinato a occupare a tempo indeterminato la scena, era fisiologico che il Quirinale facesse uno, o due passi indietro. Il contrario di quello che succede – e, probabilmente, succederà – quando invece la presidenza del Consiglio non riesce a reggersi in sella.

Fu questa la situazione propizia – anzi, secondo molti, obbligata – perché Giorgio Napolitano prendesse il toro per le corna e guidasse il blitz che portò Mario Monti a Palazzo Chigi, nel pieno della tormenta finanziaria che scuoteva il Paese. Però, perché la manovra riuscisse, fu necessario un requisito importantissimo. Per riuscire a governare le reazioni incandescenti delle forze politiche che si sentivano messe alla porta, il presidente della Repubblica aveva – e avrà – bisogno di un altissimo tasso di popolarità personale. Una legittimazione popolare che lo potesse fare comportare proprio come un Presidente francese. Un passaggio molto delicato, visto che non abbiamo in Italia una investitura diretta. Ma che, nel caso di Napolitano, funzionò a perfezione. Grazie al capitale di consensi accumulato nei mesi immediatamente precedenti.

Come gli storici ricordano – i politici, si sa, hanno la memoria corta – appena un anno prima il Quirinale si era mosso con ben altra cautela. Quando Fini, dopo un lungo tiraemolla, ruppe con il Cavaliere e mise insieme un drappello di parlamentari col quale poteva metterlo in minoranza, non ebbe da Napolitano il via libera per uno show-down immediato. E, nel tempo che intercorse prima del voto, Berlusconi ebbe buon gioco a riprendersi una parte dei propri transfughi. Come mai il Quirinale passò, nel volgere di pochi mesi, da un atteggiamento di cautela a una scelta così decisionista? La risposta più convincente sta nell’abilissima regia con cui Napolitano presidiò – e presenziò – le celebrazioni dei centocinquant’anni d’Italia.

Un evento che – secondo i leghisti – non si sarebbe nemmeno celebrato, e che si trasformò in un entusiastico tripudio di partecipazione patriottica.
Il merito di questo successo fu di Giorgio Napolitano. Che divenne, rapidamente, il simbolo dell’unità del paese, e il referente bipartisan di quanti volevano che restasse comunque insieme. Mattarella – secondo molti osservatori – ha un carattere molto diverso da quello del suo predecessore. Ma in politica, i temperamenti sono spesso forgiati dagli eventi. E pochi elementi, in verità, nella biografia di Napolitano avrebbero fatto presagire il brusco cambio di passo con cui, nello stato di necessità, prese in mano le redini della politica italiana. Sapremo presto se, con Mattarella, assisteremo a un cambiamento analogo. Il suo understatement, e la pacata severità del suo stile, gli sono già valsi un gradimento diffuso e consolidato. Si avvicina il momento in cui dovrà metterlo a rischio, e a frutto.
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