Perché il Pd nasconde Minniti

di ​Alessandro Campi
Lunedì 22 Gennaio 2018, 09:32
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Tra le personalità che il partito democratico intende candidare nei collegi uninominali non ci sarà a quanto pare Marco Minniti. Per lui è previsto un posto certo nella lista proporzionale (probabilmente nel Lazio). Se la scelta, sostenuta con forza dallo stesso Renzi, è mettere in campo Gentiloni con tutti i suoi ministri affinché facciano da traino ad un Pd che nei sondaggi sembra arrancare (persino nelle roccaforti cosiddette rosse del Centro Italia), davvero non si comprende la decisione di non far competere sul territorio il ministro degli interni. Una possibile spiegazione è che non si può chiedere al capo del Viminale, chiamato dal suo ruolo a vigilare sul corretto esito del voto, di spendersi in prima persona nella partita elettorale. Ma forse c'è una ragione più politica, che poco ha a che vedere con la prudenza o il bon ton istituzionale, alla base della sua mancata discesa nella mischia per volontà dello stesso Pd. 

Minniti è il ministro che, nel giro di pochi mesi, ha dimostrato come la volontà, la determinazione, la chiarezza d'idee e la forza di carattere siano, molto più dei buoni sentimenti e delle belle parole ispirate da valori tanto universali quanto astratti, fattori determinanti dell'azione politica, specie quando si hanno responsabilità di governo e si debbono prendere decisioni controverse ma necessarie per il bene della collettività. Sulla gestione dei flussi migratori dall'Africa ha operato, peraltro senza troppi clamori mediatici, utilizzando tutti insieme gli strumenti della diplomazia multilaterale, del rigore amministrativo, della repressione nei confronti dei trafficanti e dell'accoglienza umanitaria secondo criteri di compatibilità (criteri alla fine condivisi anche dalle gerarchie vaticane). Ciò gli è valso l'apprezzamento di una parte consistente dell'opinione pubblica d'ogni colore politico. Se sull'immigrazione incontrollata la sinistra rischiava di giocarsi l'esito elettorale, Minnitti, oltre a disinnescare una fonte crescente d'allarme sociale, ha abilmente tolto un facile argomento propagandistico agli avversari del governo.

Ma le ragioni che, in un Paese normale, dovrebbero renderlo un buon esempio di pragmatismo riformista, l'espressione cioè di una sinistra realista, modernizzatrice e anti-ideologica, capace comunque di tenere insieme cultura di governo e difesa del proprio patrimonio ideale, sono esattamente le stesse che in questi mesi gli hanno comportato l'accusa, all'interno stesso del suo campo politico-culturale, di essere un uomo d'ordine e troppo attratto dal potere, un post-comunista cinico e addirittura disumano per la durezza e la mancanza di sensibilità che avrebbe dimostrato nei confronti degli immigrati e dei richiedenti asilo. 

Invece che una risorsa da spendere in questa difficile campagna elettorale, Minniti sembra dunque rappresentare un fattore potenziale di divisione e polemica all'interno della stessa sinistra democratica: riformista e innovatrice sul piano dei proponimenti e delle intenzioni, ma evidentemente ancora troppo condizionata da modelli culturali e schemi mentali che sono quelli di un progressismo (laico o d'ispirazione cristiana) lamentoso e rivendicativo, pietista e sempre pronto a fare la morale al prossimo, ma incapace di esprimere una solida cultura istituzionale e di venire a patti con una realtà che è spesso assai diversa dai nostri ingenui desiderata.

La vicenda di Minniti, un bravo ministro i cui meriti non possono essere esibiti più di tanto dalla sua stessa parte politica, appare insomma indicativa di come il riformismo sia, per la sinistra che ad esso continua a richiamarsi, una promessa che ancora non si riesce a concretizzare. Sul piano dei contenuti e su quello, non meno importante, della forma. Renzi ad esempio ci ha provato dopo aver conquistato il partito, ma il suo slancio innovatore è stato spesso frenato da uno stile troppo declamatorio ed enfatico, da una tecnica di comunicazione eccessivamente personalizzata, martellante, a volte persino aggressiva, da un atteggiamento spesso incline sul piano verbale, al populismo, al radicalismo e al massimalismo. Laddove la regola del riformismo correttamente inteso come dimostra il caso di Gentiloni o quello dello stesso Minniti, la cui credibilità e popolarità sembrano inversamente proporzionali al loro scarso protagonismo mediatico consiste nell'esatto contrario: agire senza troppo parlare, parlare senza allarmare o suscitare false speranze, spiegare e convincere invece che promettere e illudere.

Ma il vero problema della sinistra in senso lato riformista, come sembra dimostrare ancora una volta il caso del ministro Minniti, sono soprattutto certi grumi o tic ideologici che in Italia, diversamente da quel che è accaduto nell'esperienza di altri Paesi, non si è ancora riusciti a rimuovere. Ad esempio il convincimento che l'interesse nazionale, il senso dello Stato, la meritocrazia, la sicurezza, l'ordine pubblico, il rispetto delle gerarchie sociali e dei ruoli istituzionali, il rigorismo economico, l'etica della responsabilità individuale e del dovere siano parole d'ordine tipiche della destra più becera o addirittura disvalori politici contro i quali combattere. Tutte cose che in Italia aveva ben capito e spiegato, provando anche a tradurle in un ambizioso progetto politico, un certo Bettino Craxi: il fantasma politico con cui la sinistra, a costo di passare di sconfitta in sconfitta e di perdere sempre più elettori e consensi, sinora non ha mai voluto fare i conti.
 
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