L'Europa che ci manca di rispetto

di Oscar Giannino
Venerdì 23 Febbraio 2018, 08:36
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Il presidente della Commissione Europea Juncker ha abituato gli osservatori a prendere atto che spesso parla fuori dal seminato, si è conquistato la nomea di un vero e proprio gaffeur. Ieri, parlando a mercati aperti della necessità per l’Europa di prepararsi agli scenari peggiori in vista del voto italiano il 4 marzo, ha rinverdito il suo palmares. Le sue parole hanno determinato la maggior perdita in Europa del mercato borsistico italiano (in ogni caso un modesto -0,8%) e un picco da 133 fino a 140 punti base (poi ridimensionatosi a 136) dello spread italiano rispetto al titolo decennale tedesco. Parole ispirate a elevata irresponsabilità, tradottesi in effetti tali da far dire che si è trattato di un vero atto di ostilità all’Italia. Prima di tornare sul rischio paventato da Juncker - che dopo il 4 marzo l’Italia possa avere anche a lungo un «governo non operativo» – al di là delle opinioni consideriamo alcuni fatti. 

Primo: i mercati hanno davvero sin qui mostrato di considerare molto rischioso il voto italiano? La risposta è fattuale: no. Basta osservare l’andamento dello spread, uno degli indicatori prìncipi delle attese su sostenibilità e il rischio del debito sovrano. Negli ultimi tre mesi, da 147 punti base dello scorso 24 novembre lo spread italiano è salito fino a 186 punti il 29 dicembre, per poi ridiscendere stabilmente sotto i 140 punti dalla scorsa metà di gennaio. Fino ai 120 punti del 7 febbraio, per poi mantenersi entro il corridoio dei 130 punti fino all’esternazione ieri di Juncker. Il motivo è presto detto: il fattore di maggior preoccupazione per i mercati del voto italiano era, e resta, la probabilità che possa uscirne un governo che miri a mettere direttamente in crisi l’euro annunciando la volontà di uscirne, in qualunque modo declinata.

Di fatto, però, i mercati hanno preso atto rassicurandosi che l’uscita dall’euro non è più una priorità per i Cinque Stelle, che la Lega candida sì esponenti sovranisti ma che Salvini si guarda bene dal parlare di farne uscire l’Italia. E che Berlusconi accenna sì all’ipotesi di una doppia valuta, ma soprattutto non fa altro che sbracciarsi a favore dei Popolari Europei, della Merkel, e della necessità di cambiare sì le regole europee ma senza violarle unilateralmente.
Secondo: come sta andando la congiuntura italiana? Un po’ meglio delle attese, non peggio. L’export nel 2017 è stato da record, gli investimenti privati crescono a doppia cifra grazie agli incentivi di Industra 4.0, la crescita del fatturato manifatturiero rilasciata ieri è la maggiore dal 2008, e all’aggancio solido della domanda internazionale testimoniata dai successi nell’export si aggiunge qualche primo segno di ripresa della domanda interna, finalmente superiore allo zerovirgola. Restiamo un punto sotto la media di crescita dell’euroarea, ma la attese erano di una frenata italiana già a partire dal 2018 rispetto a quella 2017, e invece sembra avvenire il contrario.

Terzo: le politiche non ortodosse della Bce. Di fatto, a tener buono lo spread in queste ultime settimane non sono state solo le limature polemiche sull’euro da parte della politica italiana e i dati della congiuntura. Ma, soprattutto, gli ultimi segnali venuti dalla Bce. Il deludente andamento degli indici di prezzo nominale, cioè il fatto che l’inflazione core resta lontana dal 2% obiettivo della Bce, si somma al fatto che malgrado la crescita sostenuta degli Usa e il suo maggior deficit in arrivo per via della riforma fiscale, il valore del dollaro resta basso sui mercati. Questi due fattori sono stati più volte richiamati da Draghi come elementi che spingono verso un’uscita ancor più morbida dal Quantitative easing. Ergo la politica monetaria non accentuerà a breve le difficoltà di chi ha più alto debito, come l’Italia che gode dell’ampio cuscino di 300 miliardi di propri titoli in pancia alla Bce. 

Quarto: il rischio bancario. Una delle altre debolezze strutturali italiane, il fatto cioè di concentrare oltre un quarto del credito deteriorato complessivo dell’euroarea, rischiava di tornare di stretta attualità in caso di immediata adozione dell’addendum di regole per smaltirli, rappresentato dal protocollo Nouy nell’ambito del sistema comune di risoluzione delle crisi bancarie europee. Il fatto che energiche pressioni ne abbiano rallentato la messa in vigore ha aperto spazio aggiuntivo ai tempi più lunghi invocati da Bankitalia e Abi, per contenere l’effetto di minori impieghi derivanti dalla necessità di nuovi energici rafforzamenti patrimoniali delle banche. 

Quinto: la Grande Coalizione tedesca. Gli iscritti alla Spd devono ancora votare sulle 177 pagine di accordo programmatico tra Cdu-Csu e socialdemocratici. È vero che di fatto non ci sono aperture esplicite alle richieste italiane di modificare le regole europee su deficit e debito, ma è altrettanto un fatto che il socialdemocratico Olaf Scholz alle Finanze non è e non sarà un fautore dell’ortodossia rigorista pari al suo predecessore Schaueble. 
Ecco, questi sono i principali elementi che hanno spinto i mercati in direzione opposta all’allarme verso l’Italia. Dopodiché è vero, l’Italia resta afflitta da seri problemi strutturali. Bassa produttività comparata da metà degli anni Novanta: sappiamo in che settori e perché, ma facciamo pochissimo per alzarla, perché significa aprire alla concorrenza e all’innovazione settori pubblici e privati che preferiscono praticarle col contagocce, col risultato di dover offrire retribuzioni basse e rapporti di lavoro a tempo. Una demografia sempre più asfittica, che comprometterà sempre più i conti del nostro welfare. Una spesa sociale squilibrata verso pensioni e anziani, e avarissima verso poveri, giovani e famiglie. Una partecipazione al mercato del lavoro di 10 e più punti lontana dal Nord Europa, fermi come siamo al 58% scarso di occupati. L’aggravamento del divario territoriale, di reddito infrastrutture e legalità, tra Nord e Sud. Un debito pubblico troppo elevato e un fisco troppo pesante. E un capitale umano non formato da scuola e università secondo gli standard richiesti da imprese e mercato. 
Ma questi sono purtroppo problemi di lungo periodo della bassa crescita italiana. Non il rischio che l’Italia conflagri di botto dopo il 4 marzo, ma gli elementi strutturali che vanno cambiati perché cresca di più. 

C’è infine un ultimo elemento. La legge elettorale che Pd e Forza Italia hanno voluto è pessima. Ma tocca agli italiani scegliere nelle urne, tra forze politiche più o meno portatrici di fattori di rischio. E bisogna averne rispetto. Come bisogna averlo per le valutazioni che toccherà al capo dello Stato fare dopo il 4 marzo, risultati alla mano dei diversi partiti. Anche nella peggiore delle ipotesi, l’esecutivo Gentiloni che resta in carica è stato un buon governo per contenere il rischio italiano, non per alzarlo. Se toccherà a lui rappresentare ancora l’Italia al tavolo della riforma della governance europea, che definirà i suoi esiti tra aprile e giugno prossimi, sarebbe un attore di contenimento del rischio sistemico, non certo di una sua eventuale esplosione.
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