«L’Europa riparta dal lavoro»
l’Italia indica la rotta all’Unione

«L’Europa riparta dal lavoro» l’Italia indica la rotta all’Unione
di Nando Santonastaso
Sabato 25 Marzo 2017, 09:41
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Sessant’anni di pace. L’Unione europea è stata soprattutto questo tra un Trattato e l’altro. E non è poco, viene subito la voglia di aggiungere, se solo si ricordano i circa 40 milioni di morti tra militari e civili della seconda guerra mondiale, le distruzioni immani, il genocidio di ebrei, rom e disabili, i campi di concentramento. Ma quello che si firma oggi tra i 27 Paesi aderenti all’Unione europea non è solo un omaggio al più lungo periodo senza conflitti bellici del Vecchio continente. È, o dovrebbe essere, soprattutto un piano di azione concreto e razionale per il futuro. Nel quale le disuguaglianze - a cominciare dall’insostenibile condizione della disoccupazione giovanile, con picchi superiori al 30% in tutte le regioni dei Paesi del Sud, dall’Andalusia alla Sicilia - vengano prese finalmente di petto e non alimentino ulteriori furori populistici. Nel quale la competitività dei sistemi produttivi non sia legata solo all’efficiente locomotiva tedesca e alle sue note rigidità ma diventi terreno comune di crescita e di concorrenza anche dei Paesi più deboli. Nel quale temi come l’Unione bancaria e fiscale, l’esercito comune, il welfare non siano visti e sentiti come sogni irrealizzabili. Un piano insomma contro lo scetticismo irrorato da tanti, forse troppi luoghi comuni che hanno finito per dipingere l’Ue come la dimensione peggiore della politica e dell’economia dei nostri tempi. 

Un problema di narrazione esiste, inutile nasconderlo: ancora oggi, ad esempio, i tanto vituperati fondi strutturali, garantiti dall’Ue a tutti gli Stati membri (per l’Italia sono un tesoro di oltre 42 miliardi da spendere fino al 2020), sono nell’immaginario popolare il sinonimo di sprechi e ruberie non al contrario - lo ha ben documentato Gianfranco Viesti - la ciambella di salvataggio di economie dissanguate dala crisi e dagli errori dei governi nazionali. L’Ue ci ha messo del suo, anche qui nessun dubbio: basta guardare alla pessima gestione (è un eufemismo) dell’emergenza migranti, affidata allo straordinario senso di responsabilità dell’Italia e mai diventata coscienza comune di tutti gli Stati membri. La solidarietà si è sgretolata nei muri alzati in molti Stati mentre nel Mediterraneo si continua a morire.
È difficile, di sicuro, ripartire con queste zavorre, ancor più appesantite dalla imbarazzante assenza di veri leader europei (in confronto quelli del 1957 sembrano ancor più dei giganti) e dai difficili rapporti con la nuova amministrazione Usa. Ieri non a caso il presidente della Commissione Juncker ha lanciato un monito alla casa Bianca con evidente riferimento al nervosismo dei Paesi dell’Est: «Trump stia attento a spingere alcuni Paesi a seguire l’esempio della Gran Bretagna. Se l’Europa fallisce ci sarà una nuova guerra nei Balcani occidentali». Del resto il difficile compromesso raggiunto tra gli Stati membri sul documento che dovrebbe segnare il nuovo inizio prova che la strada resta in salita. I governi dell’Est hanno cercato di alzare le barricate sulla scorta di vecchie e nuove polemiche (paradossale il muro alzato da Varsavia al «suo» presidente del Consiglio europeo Tusk, «reo» di essere caduto in disgrazia politica in patria). Ma alla fine hanno accettato di firmare dal momento che è scomparsa l’unica espressione che avrebbe potuto impegnare il futuro, «doppia velocità». L’aveva pronunciata la Merkel indicando la strada dei possibili ritmi diversi tra Stati membri come univa alternativa all’attuale impasse, trovando in Italia, Francia e Spagna i primi sostenitori. Nel documento che sarà siglato oggi in Campidoglio a Roma si parla solo di «ritmi» lasciando intendere che una cerimonia così solenne e di per sé storica non avrebbe potuto trasformarsi in uno scontro tra maggioranza e minoranza. Resiste - almeno a parole - la Grecia, costretta a difendere il diritto di far parte dell’Ue dopo la massacrante cura alla quale è ormai sottoposta da alcuni ani e sulla cui durata nessuno è in grado di fare previsioni. Alla fine anche Tsipras dirà sì, nella consapevolezza che il destino di Atene non può non passare anche per Bruxelles oltre che per la Bce e il Fondo monetario di Washington.

E l’Italia? L’Italia prova a lanciare un messaggio da protagonista e non soltanto per dovere di Paese ospitante. Dopo la Brexit (ma bisogna sempre ricordare che Londra non aveva mai aderito alla moneta unica, difendendo la sterlina e la propria storica autonomia) «bisogna ripartire dal lavoro», ha detto ieri il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni incontrando le parti sociali, imprese e sindacati. Non sono sembrate parole d’occasione. «Mai più messe senza fede o riti vuoti di sostanza», ha detto il capo del governo citando l’indimenticato Delors. E ha aggiunto: «Bisogna rafforzare il welfare europeo e il dialogo sociale perché le conquiste sociali sono uno degli elementi più importanti raggiunti in sessant’anni di integrazione e vanno rafforzate per dare nuovo slancio al processo comunitario». 
Già, ma anche in questo caso le nuvole che si addensano all’orizzonte dell’Unione promettono pioggia. I Paesi dell’Est sono pronti a mettersi di traverso perché non hanno alcuna intenzione di rinunciare al dumping sociale dei loro lavoratori a basso costo. Ma sul welfare c’è anche lo sbarramento annunciato dei Paesi del Nord: da loro il sistema funziona al punto che è diventato un modello anche per altri paesi, per quanto poco trasferibile sic et simpliciter. Figurarsi se accetterebbero mai che Bruxelles metta becco.

Il documento finale è costretto a prendere atto delle diversità. Di più evidentemente non si poteva pretendere. Ma è proprio questo il grande punto interrogativo che accompagna il difficile, forse disperato tentativo dell’Unione europea di sopravvivere a se stessa e di rilanciarsi. La speranza è legata ad un paragrafo ad hoc nella dichiarazione di Roma, dedicato appunto all’agenda sociale anche in chiave di spinta alla crescita e di maggior flessibilità nei bilanci, tema assai caro all’Italia: «Bisogna proseguire nelle riforme per rendere le nostre economie più competitive e più capaci di guardare al futuro ma anche più coese e giuste. L’Ue non è solo fatta di parametri economici», ha detto Gentiloni.

Intanto bisogna fare anche i conti con il presente. Conti, ovvero bilancio e manovrina da 3,4 miliardi che l’Ue continua a chiedere a Roma e che Roma si è impegnata a garantire entro le prossime settimane. Ieri - per restare nella cronaca - ne hanno parlato il nostro ministro del Tesoro Padoan e il vicepresidente Ue Dombrovsky. Nulla di sostanzialmente nuovo nelle dichiarazioni finali se non la conferma che la crescita del nostro Paese resta bassa, la più bassa di quelle certificate di recente da Eurostat tra i Paesi membri. L’Europa continua a riconoscere che stiamo facendo le riforme, che i segnali di ripresa anche nelle aree più deboli (Mezzogiorno in testa) ci sono: ma il succo non cambia, nel senso che per Bruxelles «l’Italia è uno degli stati membri che ha ancora qualche importante disavanzo macroeconomico. È fondamentale rimanere sulla rotta di un’ambiziosa agenda di riforme».

Il governo lo sa da tempo. Non a caso il Def sarà accompagnato anche dal Pnr, il Piano nazionale di riforme su cui Roma punta per convincere Bruxelles della credibilità del Paese e dell’affidabilità di un governo che ha un orizzonte di durata limitato, poco più di un anno se tutto andrà bene. Ma scelte e previsioni su questo versante esulano dal rinnovo della promessa di 60 anni fa. Anche perché - ed è il dato che bisogna costantemente sottolineare, specie oggi - il nostro destino come quello di tutta l’Europa targata Ue - Germania compresa - poggia soprattutto sulla Bce di Mario Draghi. Con tutti i limiti che ormai anche i non addetti ai lavori conoscono, la Banca centrale europea è riuscita finora a impedire il collasso dell’Unione monetaria. E ora che l’inflazione ha ripreso a salire, sia pure restando in molti Paesi lontano dalla soglia di sicurezza del 2 per cento, i piani di emergenza voluti e difesi tenacemente da Draghi potrebbero affievolirsi. Vorrebbe dire - se la cosa accadesse veramente - che l’Europa è tornata a correre, a essere interlocutore solido e forte di Trump e della Cina, ad assorbire senza strappi populisti ed euroscettici. Utopia? Forse ma che sia la strada obbligata nessuno dovrebbe dubitarne.
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