L'intervista al governatore De Luca: «Così ho cambiato la Campania»

L'intervista al governatore De Luca: «Così ho cambiato la Campania»
di Alessandro Barbano e Nando Santonastaso
Domenica 24 Dicembre 2017, 09:26 - Ultimo agg. 17:48
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Presidente De Luca, questa è la sua prima intervista a un quotidiano dopo due anni e mezzo di legislatura regionale, se si eccettua quella concessa al Mattino il giorno della sua elezione. Finora ha comunicato solo attraverso la tv e le conferenze stampa, senza lesinare critiche a un certo modo di fare informazione. In una politica di troppe parole e pochi fatti, ben venga la sobrietà, ma non le sembra di aver esagerato? Ha davvero così poca fiducia della stampa?
«Abbiamo una tale concentrazione di lavoro che diventa complicato trovare il tempo per aggiungere, ai momenti tradizionali di comunicazione con i cittadini, anche altre occasioni. Ma non nego che in qualche caso sono stato scoraggiato dagli atteggiamenti di alcuni settori dell'informazione che considero inaccettabili. Mi riferisco sia ai titoli sganciati dalla realtà, sia alla propensione a concentrarsi sul gossip. È andata crescendo una sottocultura che calpesta il mondo delle istituzioni e della politica e che è riluttante ad accettare rilievi critici. Ognuno diventa un santuario intoccabile. A me invece piace lo spirito di una comunicazione legata ai dati di fatto, e mi piace esprimere quello che penso senza subire ricatti espliciti o impliciti».

La legislatura nazionale sta per chiudersi e davanti al Paese si para lo spettro dell'ingovernabilità. Condivide questo rischio?
«Sono molto preoccupato: si prefigura uno scenario drammatico per tanti versi. Renzi ha tentato una spallata a un sistema istituzionale sclerotizzato che paralizza le decisioni. Il suo tentativo non è riuscito e il referendum conferma la sconfitta. Ma l'esigenza di un Paese più moderno e rapido nelle sue scelte resta per intero. Siamo approdati a una legge elettorale che ci condannerà a non avere un risultato di chiarezza democratica. Abbiamo fatto un passo indietro di 20 anni».

Ma qualcosa Renzi ha sbagliato?
«Credo che le valutazioni, anche autocritiche, sono quelle che lui ha fatto per primo. Ma, oltre il gossip da campagna elettorale, resta un grande problema: la mancata riforma di struttura per battere il groviglio burocratico-amministrativo-giudiziario che paralizza il Paese. È ciò che determina il diverso ritmo di sviluppo tra l'Italia e gli altri Paesi più avanzati. Questa sfida non è stata vinta. Certo, la dinamizzazione del mercato del lavoro è stata importante per uscire dalla crisi. Ma resta il divario di crescita e di produttività dell'Italia nei confronti degli atri competitors mondiali. Poi ci sono altri nodi da sciogliere. Penso al rapporto tra Pd e società italiana. Cos'è cambiato in questi ultimi due-tre anni rispetto al mondo della scuola? Si investono 3 miliardi e ci si mette contro tutti. Onestamente, c'è voluta una grande capacità nel produrre questo risultato. E che dire della Pubblica amministrazione? Non abbiamo certo consolidato il nostro rapporto con quel mondo. E se guardo alle piccole e medie imprese, mi viene in mente il nuovo Codice degli appalti. Che, a dispetto degli intenti, ha prodotto un pesante freno agli investimenti e introdotto nuova burocratizzazione. L'esatto contrario della trasparenza. Vengo alla giustizia e ai forti elementi di criticità e, in certi casi, vere e proprie cadute dello Stato di diritto. Una legge, come il codice antimafia, che prevede il sequestro preventivo dei beni di un sospetto, mi pare un passo clamoroso verso l'imbarbarimento del Paese. Infine il tema della sicurezza. Anche qui si è segnato un distacco di tanta parte dell'opinione pubblica dal Pd: sull'immigrazione ci sono state importanti iniziative del ministro Minniti e, tuttavia, non siamo stati in grado di interpretarle tenendo insieme solidarietà e rigore. Non riusciamo a parlare ai milioni di cittadini italiani che hanno paura, il loro linguaggio ci è ancora estraneo. È indispensabile per il Pd lanciare un piano per la sicurezza urbana. Un piano contro la paura nelle città. Occorre assumere diecimila unità nelle forze dell'ordine, cambiare le norme per rafforzare il contrasto alla microdelinquenza e per rendere più efficaci i fogli di via e gli allontanamenti di chi vìola le leggi».
 
Lei voterebbe lo ius soli?
«Oggi no. Perché credo che sia stata gestita male la vicenda. Già dal titolo si determina una confusione. Bisognava parlare sin dall'inizio di diritto alla cittadinanza. Lo ius soli è stato interpretato dal 99% degli italiani come il privilegio per chiunque venga in Italia di diventare cittadino. La legge ha determinato troppi equivoci e ora rischia di creare lacerazioni nel Paese. Detto ciò, ritengo doveroso e civile che un ragazzo o una ragazza che vivono qui da sempre, che parlano italiano, che hanno assimilato dialetti italiani, diventino nostri concittadini».
Che opinione si è fatto del caso Boschi? Fa bene il ministro a non dimettersi e fa bene il Pd a ricandidarla? Lei, al posto della Boschi, avrebbe fatto lo stesso di fronte alla crisi di un istituto bancario del territorio? «Sarebbe difficile non vedere che si è determinato un problema su tutta questa vicenda. Io avrei detto in maniera più esplicita: sono un parlamentare della Repubblica, ho cercato, senza mancare di rispetto alle autonomie delle varie istituzioni, di tutelare interessi legittimi dell'economia e della società che rappresento, così come ho lavorato per tutelare allo stesso modo interessi di altre comunità. Ripeto, lo avrei detto senza imbarazzi. Però, ridurre il groviglio di interessi, di irresponsabilità e di affari che si è determinato nel sistema bancario italiano a questa piccola vicenda rappresenta una intollerabile caduta demagogica di chiaro stampo pre-elettorale».

Lei era amico di Bersani, le capita ancora di sentirlo? E cosa pensa di Liberi e Uguali: quanti voti pensa che sottrarrà al Pd?
«Non riesco a vedere la prospettiva politica che determina la sua formazione. Andare dove? E con quali alleanze? È tuttavia un'iniziativa che ci farà male, inutile nasconderlo. Non so in che misura, ma indubbiamente ci farà pagare un prezzo. Ma, certo, da quel versante della politica non deriverà una prospettiva per il governo del nostro Paese. Si tratta di posizioni che mi sembrano l'esatto contrario di una linea riformatrice, per la quale con tanti esponenti di Liberi e Uguali abbiamo lavorato nel corso di questi anni. Credo in ogni caso che con loro dobbiamo mantenere un clima di rispetto reciproco e di serenità: se al centro dei problemi c'è l'Italia, prima o poi bisognerà parlare e collaborare. Ovviamente nella chiarezza: se si dice che il punto di partenza è il ripristino dell'articolo 18 non si va da nessuna parte».

Il suo giudizio sul Movimento 5Stelle è noto: ma se i 5Stelle portano a casa un terzo o poco meno dell'elettorato, non è inevitabile un accordo di coalizione tra Pd e Forza Italia? Non sarebbe giusto dirlo agli elettori prima del voto?
«In un clima diverso e in un Paese diverso bisognerebbe dirlo, sì. Ma sui 5Stelle io faccio tesoro delle considerazioni di Benedetto Croce: l'errore si condanna sempre, e non dalla bocca del giudice, ma «ex ore suo», dalla sua stessa bocca. Tradotto in politichese: più parla Di Maio, meglio è. Ha parlato per due, tre settimane e ne ha già dette di grosse sull'Europa, sul referendum anti-euro, sull'articolo 18 da introdurre anche nelle imprese sotto i 10, 5, 2 dipendenti. Forse pure per i barbieri. Emergeranno le contraddizioni e il vuoto programmatico del Movimento, la cui evoluzione seguo da tempo. Sulla lunga distanza non può reggere una forza politica che ha dentro tutto e il suo contrario. In Regione dialogo con una componente del Movimento che è progressista, laica e riformista. Ma accanto a questa ce n'è un'altra volgarmente populista, aggressiva fino allo squadrismo. Che in nome di un'idea tutta personale di democrazia ha assaltato il banco della presidenza e aggredito la presidente del Consiglio. Come può un partito che dà prove disperanti di incapacità di governo, a Roma come a Torino, che non è in grado di innaffiare un abete orfano, proporsi forza di governo? La risposta a questa domanda al 90 per cento è nei nostri problemi e nella nostra credibilità. A volte facciamo fatica a presentarci come persone normali agli occhi dei cittadini. E loro, i 5Stelle, sono l'ultimo partito ideologico rimasto in Italia. La molla che spinge i loro elettori non è l'adesione a un programma, che non esiste, ma il rigetto rispetto a tutto il resto del mondo politico. Questa riflessione ci riguarda».

Suo figlio Piero ha fatto intendere di voler correre per il Pd. Non teme che anche ciò possa nuocere alla sua azione politica e al suo ruolo istituzionale?
«No. Mio figlio ha vent'anni di sua militanza di partito. E non vive di politica, ma del suo lavoro. Farà quello che vuole, e quello che decideranno gli organismi di partito. Come tutti i cittadini italiani non deve chiedere il permesso a nessuno per esercitare i suoi diritti costituzionali».

Eppure una delle critiche più forti che i suoi avversari le muovono è quella di essere un uomo di potere. Qual è il suo rapporto con la parola potere?
«È la mia mutilazione di vita. Quale potere? Considero la mia collocazione politica come un servizio ai cittadini. Non ho clienti, non liscio il pelo a nessuno, non ho il registro dei capi elettori. Notoriamente non brillo per qualità diplomatiche, mi piace godere dell'unico lusso che mi è concesso, quello di essere un uomo libero. Credo di dover essere giudicato per le cose che faccio. Nella mia vita politica nessuno mi ha regalato niente, sono andato avanti non grazie agli anni 90 nel partito, ma nonostante il partito».

Come giudica lo stato del Pd in Campania e a Napoli?
«È uno stato leggermente febbricitante, si sono dimenticati di fare il vaccino anti-influenzale e chiudiamola qui».

E qual è oggi il suo rapporto con il sindaco di Napoli, Luigi De Magistris? Inutile negarlo, siete due personalità che si giudicano opposte nel pensiero, nello stile politico, in tutto. Ma c'è una qualità che lei è disposto a riconoscere al primo cittadino?
«È un rapporto di normale collaborazione istituzionale. Sui risultati dell'azione di governo, la storia la dovreste fare voi, io mi limito alla cronaca».

Almeno dica qual è, a suo giudizio, lo stato di salute di Napoli. È vero che sta rifiorendo, come dice il sindaco?
«Napoli è una grande capitale che in una certa misura va avanti da sé: per la sua storia, per la sua immagine nel mondo. Dovremmo valorizzare la sua identità forte, non quella debole e vittimistica che invece a volte si rivendica. Penso al suo carattere internazionale, alla capacità di accogliere, assorbire culture, scambiare esperienze, affascinare grandi personalità. Benedetto Croce non era di Napoli, ma è diventato napoletano. Purtroppo a volte prevale l'identità della lamentazione, che pesca nel plebeismo e nel pulcinellismo. Di questo tratto prima ci si libera e meglio è. Per il resto, credo che ognuno debba fare una operazione di verità, dire cioè con onestà che il livello di civiltà e di vivibilità di Napoli non è all'altezza di una città europea. Sarà capitato a tanti di ritrovarsi intrappolati per qualche ora in auto nel traffico infernale, o di vedere una scarsa presenza di polizia municipale in luoghi chiave. E adesso si aggiunge anche questa esplosione di violenza giovanile: il tema riguarda in primo luogo le forze dell'ordine, certo, ma tutti siamo chiamati a dare una mano. Per parte nostra stiamo estendendo, dove è possibile, la videosorveglianza. Ma c'è un elemento di disordine urbano che rischia di fomentare un clima non positivo».

Che vuol dire disordine?
«Disordine vuol dire gruppi di persone che, brandendo il mito del conflitto tra classi dirigenti e plebeismo, immaginano con i blocchi stradali, le intimidazioni e le minacce di ottenere qualche privilegio. Soprattutto alla vigilia delle campagne elettorali, quando il 90 per cento degli uomini politici è vulnerabile e disponibile a fare promesse. Personalmente, mi commuovo per le decine di migliaia di ragazzi e di ragazze per bene che passano la vita a studiare, a darsi una professione, e che cercano un lavoro rispettando la legalità e la civiltà dei rapporti. Non per coloro che pensano di procacciarsi lo stipendio con le minacce. Non ho nessuna intenzione di creare nuovi serbatoi di precariato violento. Deve finire una volta per tutte, perché non fa bene a Napoli, la storia per cui ogni esponente di governo che arriva qui deve subire l'intimidazione di cinquanta persone che imperversano impunite nella città».

Ma lei, salernitano, sente di avere oggi la fiducia dei napoletani? Crede di aver smentito il pregiudizio secondo cui lei privilegia la sua città natale al capoluogo, trasferendo a Salerno più risorse e progetti di quelli che forse meriterebbe?
«Questo è un luogo comune. Qualcuno per pigrizia mentale, per ignoranza o malafede alimenta questi municipalismi idioti. Napoli non ha mai avuto dalla Regione tante risorse e tanta attenzione come oggi: 3 miliardi di euro, risorse imponenti per le infrastrutture, per la cultura, per le politiche sociali. Sono l'unico dirigente politico che può parlare lo stesso linguaggio a Napoli, a Caserta, a Salerno, a Benevento, ad Avelino. E a Roma. Il mio rapporto con Napoli è cento volte più stretto e forte di tutti quelli che alimentano le guerre di campanile».
La Regione chiude il 2017 con un ulteriore incremento del Pil del 3,2%, registrato proprio ieri: pensa che la crescita possa essere consolidata anche nel prossimo anno? E basteranno comunque questi risultati a far crescere anche l'occupazione e a invertire la perdita del capitale umano che fa fuggire molti cervelli al Nord?
«Il nuovo governo regionale è partito da un autentico disastro, i conti sono noti a tutti. Stiamo facendo un'operazione di portata storica: sta nascendo per la prima volta una identità campana, un orgoglio di sentirsi campani, riconoscendosi in un ente che non produce paludi burocratiche, ma efficienza, decisioni, correttezza amministrativa e risultati. È in atto una rivoluzione democratica: l'abbandono cioè delle clientele di massa e l'affermazione dei diritti uguali per tutti i cittadini. E ancora: una svolta antiburocratica: niente più tempi morti, autorizzazioni entro tre mesi, risanamento dei bilanci. Per la prima volta avremo un bilancio senza carte false, senza entrate finte, un lavoro immane per le Asl e per la Regione con l'obiettivo di portare la Campania in Europa sul serio. Il 3,2% di crescita del pil è un miracolo, specie se si considera che Napoli città fa ancora tanta fatica a mettersi in movimento sul piano della rigenerazione urbana e delle opere pubbliche. Ma c'è anche +3,4% di occupazione. Che non si spiega certo solo con il turismo, cresciuto per ragioni internazionali. Si è affermata la fiducia degli investitori e dei cittadini: oggi si sa che c'è una istituzione che decide e va avanti. Poi ci sono le decisioni importanti prese dalla Regione: i contratti di sviluppo per 1,5 miliardi di investimenti, i 3,6 miliardi immessi nell'economia campana da settembre 2015 a oggi, i processi di sburocratizzazione, i contributi ai giovani professionisti per aprire i loro studi professionali. E le decine di cantieri dopo anni di chiusura: li abbiamo aperti assumendoci la responsabilità delle transazioni con le imprese. Io stesso faccio fatica a capire come abbiamo potuto realizzare tanto. E adesso si apre anche la prospettiva della Zona economica speciale per la quale ci sono le risorse messe a disposizione dal governo Renzi, come i 500 milioni per le ecoballe e i 270 milioni per Bagnoli».

E se la Zes e Bagnoli restassero grandi annunci e perenni incompiute?
«Renzi ha dato un contributo decisivo alla ripresa del tema ambientale. Senza i sui soldi oggi a Bagnoli potremmo fare solo gli esercizi spirituali. Certo, se il lavoro sul campo rivela situazioni drammaticamente diverse da quelle che si immaginava, la politica stavolta non c'entra: Invitalia ci ha comunicato che, purtroppo, dalla caratterizzazione viene fuori che bisogna bonificare anche le aree già bonificate. È un inferno. Ma rimane il fatto che si è deciso di investire molte risorse e di andare avanti. Il problema ora è di completare la bonifica. Non vorremmo rimetterci un centinaio di milioni di euro, perché molte delle cose realizzate sono state fatte con i soldi europei e rischiamo il definanziamento».

Come valuta la fusione per incoporazione del Banco di Napoli da parte di Intesa San Paolo?
«Occorre verificare bene i contenuti dell'operazione, capire nel merito il piano industriale: è decisiva la tutela dell'occupazione, così come rimane aperta la questione di un grande istituto bancario capace di supportare l'imprenditoria e le istituzioni meridionali con la sensibilità necessaria. E' chiaro che ci muoviamo in un contesto di competizione mondiale, ma credo che sia sbagliato anche dal punto di vista aziendale far scomparire il marchio Banco di Napoli».

Lei ha scelto di non fare nuovi termovalorizzatori in Campania, ma di smaltire le ecoballe conferendole oltre regione, e di puntare sulla raccolta differenziata e sul compostaggio. Però, con Comuni come Napoli, che sono al 24% di differenziata, e con l'ostilità dei territori che non vogliono neanche un mini-impianto, il ciclo dei rifiuti rischia di restare un'eterna incompiuta. Se ne rende conto?
«Andremo avanti con estrema determinazione, ma sulla base del dialogo, non degli ideologismi. Con grande nettezza va detto che il pericolo di avere i rifiuti in mezzo alle strade è ancora attuale, non ce ne siamo liberati. Perché non ho fatto un altro termovalorizzatore? Perché i piani economico-finanziari non reggono più. La risorsa aggiuntiva del Cip 6 è stata eliminata. Un investimento di 3-400 milioni regge solo se hai il contributo aggiuntivo dello Stato. E poi ci sono i tempi di realizzazione: ci vogliono almeno 5-6 anni, ma sappiamo che per la forte emotività dei territori questi tempi sarebbero raddoppiati. Noi abbiamo l'obiettivo di aumentare la differenziata. Deve arrivare al 60% e siamo a buon punto, abbiamo dato incentivi anche a Napoli per accelerare. Poi c'è l'impiantistica: servono 10-15 siti di compostaggio che non inquinano, per trattare l'umido. I cittadini devono capire che, se non li facciamo, continueranno a pagare di più le bollette».

Ma come sperate di convincere gli abitanti di Battipaglia e di Giugliano che respingono l'idea dei nuovi impianti?
«Dialogando. I cittadini hanno il diritto di protestare se l'ambiente non è gradevole. Per questo noi stiamo lavorando, sia sul fronte dei rifiuti sia sul ciclo delle acque, attraverso gli interventi sulla depurazione, con il programma Bandiera Blu e con le risorse destinate alle nuove reti fognarie. Abbiamo ripreso grandi progetti come quello del Sarno, che era bloccato, approvato il piano anti-roghi con 8 droni dei carabinieri che monitorano la Terra dei fuochi. Oggi la Campania è la regione più monitorata d'Italia sul piano ambientale».

Intanto la prima gara per lo smaltimento delle ecoballe non ha dato i frutti sperati, la seconda si è conclusa, ma non ci sono stati ancora nuovi smaltimenti. In totale non si arriva alle centomila tonnellate spedite rispetto ai sei milioni che restano sul territorio: quanti anni ci vorranno per liberare le piazzole e cominciare a risparmiare sugli affitti?
«L'80% del problema lo avremo risolto entro la fine della legislatura. Se qualcuno dice che abbiamo perso un solo giorno di tempo lo dimostri. Il programma va avanti e, se abbiamo preso qualche mese in più, è perché abbiamo deciso di sottoporre ogni atto all'Anac per non regalare ancora milioni alla camorra».

Nel governo della Salute dopo due anni di lavoro ci sono ancora da affrontare i ritardi nelle assunzioni del personale, la stabilizzazione dei precari, l'Ospedale del mare da far decollare, l'Asl Napoli 1 da rimettere in sesto, i livelli di assistenza da riportare a galla, la rete dei privati da riordinare e tutto il capitolo delle cure domiciliari territoriali intermedie da aprire: ci vorrebbe una squadra di persone esperte e competenti dedicata a ognuno di questi nodi, come fare con le esigue forze in campo?
«E' il settore nel quale la rivoluzione sta andando avanti in modo rilevante. Siamo partiti da sottozero, nei dieci anni precedenti si è ridotto il personale della sanità di qualcosa come 12mila unità e non è stato fatto null'altro. Questo ha determinato l'appesantimento di tutte le unità sanitarie con responsabilità gravissime: non c'erano i bilanci consuntivi di tutte le Asl, gli ultimi risalivano al 2012. Abbiamo letto relazioni pesanti dei revisori dei conti e siamo stati costretti a mettere al lavoro centinaia di persone per poter fare piani aziendali seri. Dal 2012 non si utilizzava un euro perché non avevamo progetti esecutivi. Da quando siamo intervenuti noi, c'è stata la prima autorizzazione per assumere 1800 persone, abbiamo potuto stabilizzare 800 precari e con il piano ospedaliero abbiamo definito il fabbisogno sanitario. Abbiamo fatto un miracolo, se penso solo alla possibilità di liberare i corridoi del Cardarelli dalle barelle e alla definizione del cronoprogramma dell'Ospedale del mare, che ci porterà all'apertura del pronto soccorso a gennaio 2018. E poi lo sblocco dei concorsi per 70 nuove farmacie, l'apertura di nuovi reparti al Santobono, al Moscati, dei pronto soccorso di Frattamaggiore e Giugliano. Abbiamo avviato la riduzione dei tempi delle liste di attesa e del numero di parti cesarei. Ora abbiamo due criticità da affrontare con la stessa determinazione: la medicina territoriale e gli screening oncologici».

Il riequilibrio tra Nord e Sud delle risorse assegnate alle Regioni è diventato cruciale per la salute delle popolazioni meridionali, che scontano maggiore mortalità ed emigrazione sanitaria: è pensabile un fronte comune dei Governatori del Sud?
«Noi subiamo ogni anno una rapina da 250 milioni di euro e combatteremo ancora per impedirla, ma non credo a ipotesi di alleanze di macroregioni: ci muoviamo in base a parametri nazionali, non ci sono altri spazi. Di sicuro per combattere dobbiamo essere a posto con i nostri conti. Altrimenti ci facciamo ridere in faccia. Oggi però possiamo presentarci a testa alta, il prossimo anno saremo la regione d'Italia che paga nei tempi più brevi, la metà di quelli della Lombardia».

La Regione destina al San Carlo 13 milioni di fondi europei: è il più alto contributo per una Fondazione lirica. Nel Consiglio di indirizzo, al posto del dimissionario Maffettone è entrato un uomo macchina, esperto di numeri, come De Felice: cambierà la politica regionale nei confronti dell'ente, oppure è cambiato solo il suo rapporto con Maffettone?
«Non cambierà nulla. Maffettone è una personalità di alto livello della cultura italiana. Manterremo l'impegno per il teatro di San Carlo, che è un patrimonio del mondo. Ho sollevato un problema con molto garbo, ma con spirito di verità: lo squilibrio nei contributi al San Carlo da parte delle diverse istituzioni che compongono il Consiglio non è più sostenibile. Altri devono dare un contributo molto più rilevante, mettersi per lo meno al livello dei Comuni di Bari e Palermo».

Ma perché manca ancora un assessore regionale alla cultura?
«L'assessore c'è, sono io. Per la cultura, soprattutto a Napoli, abbiamo fatto moltissimo con Ruggero Cappuccio, e c'è stato un fiorire di iniziative nei nostri musei, dal Madre a Capodimonte. Quando c'era un assessore alla cultura non arrivava Van Gogh a Capodimonte, né la mostra di Pompei».

Manca un anno e mezzo alle Universiadi, non è stato ancora nominato il commissario e i lavori di restyling degli impianti sono bloccati: c'è il rischio di perdere questa grande occasione per Napoli e la Campania?
«Sono obbligato a essere fiducioso. Certo, guardandomi indietro, mi viene ogni tanto la voglia di chiedermi: ma chi me l'ha fatto fare, con tutti i guai che abbiamo. Ma mi sembrava un'opportunità per Napoli, specie dopo la rinuncia alle Olimpiadi di Roma e l'eliminazione dal Mondiale di calcio. La normativa per il commissario è stata approvata, nei primi giorni del nuovo anno avremo la nomina e dunque potremo puntare a procedure molto più accelerate. Credo che ce la faremo. Mi permetta di dire, a proposito di Napoli, che ci voleva De Luca per salvare il Collana».

Chiudiamo con l'aeroporto di Pontecagnano: nel bilancio regionale lei ha stanziato 2,8 milioni per questo scalo. Crede davvero che possa diventare complementare a Capodichino?
«È stato un altro tema sul quale la cafoneria del municipalismo si è coperta di gloria. Lo scalo di Salerno Pontecagnano è inserito nel Piano nazionale aeroportuale ed è decisivo per Capodichino, che, avendo avuto un picco di traffico, non può andare oltre per limiti fisici. È essenziale avere un aeroporto di supporto, ed è essenziale averlo rispetto all'area sud della Campania, alla Calabria e alla Basilicata. Anche dal punto di vista turistico, questa operazione è del tutto corretta e ragionevole, con buona pace dei cafoni. E la porteremo a conclusione».
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