IL PENSIERO SECURITARIO

IL PENSIERO SECURITARIO
di ​Alessandro Barbano
Giovedì 26 Maggio 2016, 09:09 - Ultimo agg. 12:35
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Nella sfida che il populismo sferra alla democrazia in tutto l'Occidente e che si nutre di nostalgie nazionaliste e paure globali, c'è un tratto specifico italiano che la rende drammaticamente facile, una torsione del significato delle parole per cui ogni risposta della politica rischia di apparire un autogol. Se il lettore ci consente l'uso analogico del termine, lo chiameremo «pensiero securitario», simile a un vecchio arnese proprio dei regimi che, in nome della sicurezza e della legalità, introduce e impone in tutte le relazioni civili il lessico e il paradigma del sospetto nella narrazione che una società fa di se stessa, attraverso le tre forme di linguaggio in cui tale narrazione avviene: il politico, il giudiziario e il giornalistico.

E tuttavia non si tratta di uno schema che il populismo ha pescato dalle soffitte, ammuffite ma non troppo, dei fascismi. Poiché a coltivarlo e a consegnarlo ai nuovi apostoli dell'antipolitica è stata proprio la politica, è più precisamente il pensiero politico della sinistra italiana, di cui il pensiero securitario è diretta filiazione.È uno schema che sarebbe perfino riduttivo definire giustizialismo, anche se con questo ha diversi punti di contatto. Si ammanta di una sorta di teologia morale per trasformare, per esempio, una campagna elettorale in una caccia agli «impresentabili» o «ai figli, parenti, amici di».

Non si limita a una interdizione selettiva e chirurgica dei nemici, ma monopolizza la comunicazione e impone alla politica di assumere per intero il paradigma moralistico, rinunciando a qualunque altra offerta. Così l’intera vigilia delle amministrative chiamate tra meno di dieci giorni a rinnovare la classe dirigente delle principali città italiane è uno spazio simbolico occupato da una nuvola di sospetto, che ciascuna forza politica cerca di scrollarsi di dosso e di sospingere verso l’avversario, nella convinzione, non fallace, che sarà proprio la densità di questa coltre nebulosa ad orientare le scelte dei cittadini elettori.
A quest’obiettivo concorre un giornalismo affetto da una sindrome per la quale una parte basta a definire il tutto, proiettando nella comunicazione una miopia della democrazia, cioè la sua difficoltà di mettere a fuoco in maniera corretta qualità e quantità dei suoi oggetti. Così accade che a Napoli un quotidiano scorga tra i millecinquecento candidati alle elezioni comunali il figlio di un boss di camorra condannato molti anni fa per omicidio, presente in una lista di Verdini. E da questa circostanza, indubitabilmente vera, tragga la prova di un accordo opaco del candidato renziano del Pd Valeria Valente con i transfughi di Berlusconi. Senonché il figlio del boss si professa come un volontario che s’impegna nel sostenere i bambini figli dei detenuti, costretti a snervanti attese di ore davanti alle porte delle carceri per un breve incontro in parlatorio con i propri genitori. E, rinnegando le appartenenze paterne, il candidato «figlio di» osa pronunciare una frase che suscita, nel pensiero securitario diffuso e dominante, un nuovo scandalo. «A Napoli - dice - secondo qualcuno ci sono 4 milioni di camorristi, se risaliamo ai nonni e a tutti i parenti. Saremmo quindi tutti camorristi?».

La domanda è retorica, ma anche intuitivamente provocatoria. Suona come una critica, diretta ma efficace, a chi crede di combattere la camorra selezionando la classe dirigente attraverso patenti di moralità familiare. Ma in un clima politico e civile umiliato da un misero conformismo, questa frase scatena un’abiura collettiva: «Noi, tutti camorristi? Ma come si permette». Lo stesso aspirante sindaco del Pd, Valeria Valente, si preoccupa di prendere le distanze da un’affermazione troppo disinvolta per non cadere sotto la censura di un’opinione pubblica securitaria. Gli farà eco pochi giorni dopo il candidato del centrodestra Gianni Lettieri, che pretenderà la rinuncia di un suo candidato, colpevole di avere il padre in carcere. Il retropensiero di tutti è ormai un pensiero unico: gli impresentabili sono la decisiva variabile che può far vincere o perdere le elezioni in un Paese che, come certificano tutti i sondaggisti, pone l’onestà in cima ai requisiti del sindaco ideale.

A questo punto il Movimento di Grillo, che il pensiero securitario se lo intesta come sostanza della sua stessa identità, ha in parte già vinto la sfida. Perché ha cambiato il verso dell’etica civile, anche di chi non vota Cinquestelle. Una stragrande maggioranza di italiani pensa in modo securitario. 
Senonché questo è un pensiero suicida. Un pensiero kamikaze, che fa terra bruciata attorno a sé e tuttavia si riproduce. Quanto sta accadendo in queste ore a Roma ne è la conferma più esplicita. Un incontro elettorale della candidata pentastellata, Virginia Raggi, è stato interrotto dall’arrivo dei vigili urbani nel piazzale dove erano parcheggiate le auto dei supporter grillini. I quali, alla notizia del controllo sulla regolarità dei loro parcheggi, hanno abbandonato in massa l’aula del dibattito e sono corsi in strada per sincerarsi di non aver preso la multa o, magari, per spostare in tempo l’auto dalla sosta vietata.

È questa reazione di massa che risulta, nel clima securitario, una gaffe elettorale. Se lo chiedono i giornali che interrogano alcuni degli astanti pentastellati per spiegare le ragioni segrete della loro fuga nel piazzale: non basta a questi ultimi esibire prova del parcheggio nelle strisce, o del tagliando orario sul lunotto, per fugare i sospetti. Il quesito «politico» della vicenda è un altro: cos’hanno da nascondere i grillini se all’arrivo dei vigili scattano come i giocatori di una bisca clandestina? Presto la patente di pubblica presentabilità potrebbe associare, oltre al certificato antimafia, anche un certificato di moralità inconscia, attestabile in sede psicanalistica. Perché è ormai la psiche la prova del nove della diversità morale.

In questo clima civile l’Italia sta per rinnovare i suoi sindaci. E a chi scrive viene da pensare con rammarico che la lezione di Orwell sulla psico-polizia non si studia né si ricorda più, che Pannella da pochi giorni ci ha lasciato, e che a nessuno verrebbe in mente di candidare per scelta, non Cicciolina, ma un «Impresentabile» con la «I» maiuscola e con una valigia di sospetti.
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