No, nemmeno l’occasione – i suoi rituali consolidati, il suo cerimoniale orgoglioso, la sua proiezione globale – è riuscita a rendere un po’ più presidenziale Donald Trump. Chiudendo gli occhi e ascoltando le parole del neo-Presidente si sarebbe potuto credere di trovarsi ancora in Michigan o in Wisconsin, in un comizio della campagna elettorale. Il tono pugnace e veemente; il lessico rozzo, autoritario e approssimativo; la retorica aggressivamente nazionalista, incapsulata nello slogan trumpiano per eccellenza: la promessa di «rendere nuovamente grande l’America» (to make America great again). Questa visione iper-nazionalista di Trump è stata articolata attorno a quattro assi fondamentali, che in una certa misura la rendono peculiare ed eccentrica rispetto a quelle di tutte le presidenze moderne.
Il primo è l’impegno a promuovere una svolta drasticamente protezionista in economia. «Seguiremo due regole: comprare americano, assumere americani (buy American; hire American)», ha promesso Trump, calcando ancor più la mano su uno dei temi centrali del suo messaggio elettorale. Con una lettura della storia a dir poco discutibile, Trump è tornato a denunciare i processi d’integrazione economica globale dell’ultimo cinquantennio come nocivi per gli Usa: come fattori d’indebolimento di un paese troppo ingenuo e generoso, e quindi frequentemente derubato da avversari più cinici, capaci e scaltri.
Il secondo asse è rappresentato dall’unilateralismo. L’impegno a proteggere l’America e gli americani dalla concorrenza sleale, e a rilanciare quindi l’industria statunitense, poggia sulla disponibilità, se non la necessità, ad agire unilateralmente. Non vi è stata menzione della comunità internazionale e solo un breve cenno alle alleanze di cui gli Usa fanno parte. Le relazioni internazionali sono state invece presentate come un’arena di competizione e conflitto: un sistema anarchico dove ognuno cerca di massimizzare i propri obiettivi a discapito di quelli degli altri. «È un diritto di tutte le nazioni anteporre i propri interessi», ha affermato Trump. Una lettura, questa, assai lontana dai dettami basilari dell’internazionalismo statunitense, repubblicano e democratico, secondo i quali è compito e responsabilità degli Stati Uniti intervenire nelle vicende mondiali per indirizzarne il corso in accordo con i propri principi e valori.
Terzo asse: un populismo anti-establishment dal quale il discorso ha preso le mosse. Un attacco a Washington e a una politica corrotta e auto-referenziale che avrebbe rubato l’America agli americani. «Non stiamo solamente trasferendo il potere da un’amministrazione all’altra - ha affermato Trump - Stiamo trasferendo il potere da Washington e lo stiamo restituendo a voi, il popolo». Un populismo, quello di Trump, che suona in una certa misura stridente sulle labbra tanto di un presidente quanto di un miliardario, ma che evidentemente tocca corde profonde nel paese.
Quarto e ultimo: una riflessione tutta centrata sull’idea che gli Usa soffrano di un declino cui Obama non solo non avrebbe dato risposta, ma che le sue politiche avrebbero attivamente, e colpevolmente, accelerato. Con una sconcertante iperbole, Trump ha parlato di una «carneficina dell’America» (American carnage) in riferimento allo stato in cui gran parte del paese verserebbe, a partire dalle sue città infestate dalla criminalità, «dalle droghe e dalle gang che troppe vite» avrebbero «rubato».
Non è ovviamente così.