Lettera al terrorista ucciso: «Com'è potuto accadere, Younes? Eri il più responsabile di tutti»

Younes Bouyaaqoub, 22 anni, il marocchino che era alla guida del furgone della strage sulla Rambla, abbattuto ieri
Younes Bouyaaqoub, 22 anni, il marocchino che era alla guida del furgone della strage sulla Rambla, abbattuto ieri
di Paola Del Vecchio
Martedì 22 Agosto 2017, 17:01 - Ultimo agg. 23 Agosto, 09:21
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Hanno seminato morte e terrore negli attacchi sulla Rambla e a Cambrils, che hanno provocato 15 vittime. Ed erano pronti a immolarsi in nome di Allah, provocando ancora più lutto e distruzione. In sei sono stati abbattuti dai Mossos d’Esquadra, l’ultimo ieri: Younes Bouyaaqoub, 22 anni, che era al volante del furgone assassino sulla Rambla, braccato per giorni e stanato fra i vigneti del Peñades, a 50 km da Barcellona.

Un altro era saltato in aria nel covo-laboratorio di Alcanar, mentre mercoledì sera preparavano gli ordigni per la strage. Per altri quattro, arrestati, il magistrato dell’Audiencia Nacional di Madrid, Hereu ha confermato oggi la detenzione in carcere, in isolamento. E sono probabilmente destinati a passare la gran parte della loro vita in carcere.

Ma in che momento i fratelli Younes e Houssaine Abouyaaqoub, Driss e Moussa Okabir, Mohammed Houli Chemial, Mohammed Alla e gli altri terroristi marocchini cresciuti a Ripoll, che parlavano catalano, giocavano a calcetto ed erano integrati nella piccola comunità di diecimila abitanti, sono diventati soldati della jihad? I feroci membri della cellula decisi a stroncare quante più possibili vite innocenti?
 



«Da bambini sognavano di diventare pilota, maestro, medico, collaboratore di una Ong. Come è potuto andare tutto in fumo? In che momento?» si chiede angosciata Raquel, un’assistente e sociale di Ripoll, responsabile del programma educativo del Comune di diecimila abitanti, che ha visto crescere i giovani, poi divenuti terroristi. “Spezzata dal dolore”, ha affidato il suo tormento a una lettera aperta, diffusa nei social network.
Questo il testo integrale.

«Voglio spiegare cose che non usciranno sui giornali né in tv. Ho bisogno di gridarlo ai quattro venti, perché il mio cuore è molto triste, troppo. Non avevo mai provato un sentimento così forte, perché non è razionale, non viene da quello che vedi, che deve accadere o che fa parte della vita. Viene da un altro luogo che non sono capace neanche di descrivere. Io che credevo di stare facendo bene, di aver contribuito con il mio granello di sabbia…Questi ragazzini erano bambini come gli altri. Come i miei figli, erano figli di Ripoll. Come quelli che vedi giocare nella piazza, o quello che ha sulle spalle uno zaino enorme di libri, quello che ti saluta e ti cede il passo nella fila al supermercato, quello che diventa nervoso quando una ragazza gli sorride.

Mi addolorano le scintille che accendono l’odio nella Rete, in strada, nel paese dove vivo, i giornali…Dove si mostra l’ignoranza, il rancore, l’indifferenza, la mancanza di rispetto verso il prossimo, i luoghi comuni, le frontiere, si gira la testa da un’altra parte, non ci si mette nella pelle dell’altro. Cose che si ripetono un secolo dopo l’altro, anno dopo anno.

Cosa stiamo facendo male? Dovremmo fermare tutto questo. Dovremmo agire, fare qualcosa. E io che credevo di fare bene, di aver contribuito con il mio granello di sabbia…E’ certo che non avevo mai vissuto nulla del genere in prima persona e che l’accaduto mi ha fatto cambiare il punto di vista. E per giunta ora lo vedo dall’altra parte e sono distrutta. Le cose che accadono in tv, o dall’altro capo del mondo finiscono col diluirsi ed essere dimenticate, e non si sa cosa sia vero o reale. E finisce col prevalere l’ira, la rabbia, arriviamo anche a invocare occhio per occhio, dente per dente, per condannare questi atti.

…Ora mi addolora vedere il mosaico di Miró sporco di sangue. Mi addolora vedere che accade nella mia città. Mi fa male pensare che potrei avere parenti o conoscenti morti sulle Ramblas, dove ho consumato le suole per il tanto camminarci. Mi addolora che siano stati loro…Non posso contenere le lacrime. Non ho potuto smettere di piangere dal primo giorno e so che non potrò smettere di farlo.

Sono distrutta, spezzata dentro. So che questi giorni la bilancia e l’appoggio pendono a favore delle vittime, dei figli perduti, delle famiglie distrutte, della città a lutto. Ma consentitemi di raccontarvi e mostrarvi l’altra faccia della medaglia, quella che non esce sui giornali, che non piange in pubblico, che in silenzio asciuga le lacrime perché sta mal visto piangere per loro.

Permettetemi di dirvi com’erano loro, almeno i bambini che io ho conosciuto. I miei preadolescenti del programma Lokal. E’ durissimo per me. Ho lavorato quasi tutta la vita, ora ho 41 anni, nel mondo sociale, in strada, in trincea, come diciamo noi. Appena atterrata a Ripoll, cominciai a lavorare con un gruppo di giovani, ma c’erano ragazzini di quasi tutte le età, e gli uni avevano cura degli altri. Pilota, maestro, medico, collaboratore di una Ong. Come hanno potuto questi sogni andare in fumo? Cosa ci è accaduto? In che momento…?

Il più piccolo aveva 8 anni e veniva sempre per mano con suo fratello. Un fratello educato, timido, amabile, bravo studente, tranquillo, che a scuola non si metteva mai in problemi. Un bambino che mi offriva sempre qualche caramella che comprava con gi pochi soldi che aveva.

 C’erano due fratelli che litigavano sempre. Il più grande arrossiva quando entrava quella ragazzina che gli piaceva, anche se non arrivò mai a rivolgerle la parola. Non mancava mai alle classi quando lei c’era. Dopo un po’ arrivarono altri ragazzi di Nador, molti impararono le prime parole e perché non dirlo: insulti fra le partite a ping pong. Anch’io imparai qualcosa nella loro lingua.

E poi vennero i fratelli, le nuove generazioni. I furbetti, quelli dagli sguardi vivi e il sorriso sulle labbra. Tutti crescevamo e passavamo tappe. No, abbiamo sofferto con l’adolescenza, mamma mia! Fra acne, filoni, testosteroni e sogni da realizzare. Ancor ricordo le lunghe chiacchierate nell’ufficio. Raquel, ho bisogno di parlarti…e là conversavamo e parlavamo del futuro. Pilota, maestro, medico, collaboratore di una Ong. Come è potuto andare tutto in fumo? In che momento…? Cosa stiamo facendo male perché accadano queste cose?
 Eravate così giovani, pieni di vita, avevate tutta la vita davanti…e mille sogni da realizzare. Io non potrò tornare a dirvi quando siete belli, o chiedervi: hai già la fidanzata?. O, mamma mia, come siete cresciuti! Non potrò conoscere i vostri figli, come faccio con gli altri. Non vi potrò abbracciare…mi addolora tanto. Non riesco a crederci.

Questa non deve restare una storia come le altre, dobbiamo apprendere a fare un mondo migliore. Praticare con l’esempio, educando alla non violenza, trasmettere il non odio, l’uguaglianza. Educando nelle scuole, negli spazi aperti, nelle famiglie, i nostri figli…Mi restano dentro troppe cose e molte immagini che non dimenticherò. Said, Moha, Moussa, Youssef, Omar…Younes…e ora Houssin…(è un incubo, la lista è sempre più lunga).

Come può essere Younes?..Mi tremano le mani, non ho mai visto nessuno responsabile come te…Gli atti che avete commesso non hanno giustificazione e non sono leciti…la guerra, l’ira, l’odio non portano da nessuna parte. Mai, in nome di nessuno. Né per nessuno. Nessun dio, né bandiere, né religione….Vi posso solo dire che ho il cuore spezzato…».
 
 
 

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