Trump ha centrato il suo obiettivo: gli esteri per politica interna

Trump ha centrato il suo obiettivo: gli esteri per politica interna
di Luca Marfé
Martedì 18 Aprile 2017, 12:15 - Ultimo agg. 13:01
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NEW YORK - Trump ha ottenuto ciò che voleva. E rischia di fare ancora meglio. Prima i missili in Siria, poi la «madre di tutte le bombe» in Afghanistan, ora i toni altissimi rivolti alla Corea del Nord. Quale il comune denominatore tra queste tre vicende di politica estera? Semplice: la politica interna.

Il presidente era ed è tuttora, sebbene in molti se ne siano dimenticati, impantanato sulla riforma (fallita) di ObamaCare e sulla promessa ridondante e assai vicina al cuore degli americani (tutti) di abbassare le tasse. Cosa ha fatto, dunque? Ha giocato non una, ma ben tre carte per distrarre non soltanto il proprio pubblico, ma il mondo intero. E ci è riuscito.

Il 20 gennaio scorso, in occasione dell’Inauguration Day, giornata del suo insediamento, nonostante una sparuta folla per nulla strabordante riversata per le strade di Washington, vantava una percentuale di approvazione vicina alla soglia dei 60 punti. Se non un’enormità, quasi. Tempo qualche settimana e, tra ordini esecutivi a voler essere generosi avventati, tweet fuori posto, tanti proclami e pochi fatti, il crollo. Un crollo che ha rischiato di portarlo addirittura al di sotto del 40%.

Ebbene, oggi, dopo due settimane di agitazione furibonda, i numeri lo danno in forte risalita, per la prima volta oramai da un paio di mesi, al di sopra del gradimento della metà del suo popolo. Un risultato straordinario se si pensa alle difficoltà in cui era incappato e, più in generale, alla natura ed alle stravaganze del personaggio.

Un obiettivo centrato solo e soltanto grazie a questa nuova strategia, inaspettatamente ancor più rumorosa della precedente, di quella, cioè, che ha caratterizzato i 18 mesi di campagna elettorale firmata Trump.

La Corea del Nord, che in particolare agita in queste ore i notiziari statunitensi e internazionali, è particolarmente funzionale ad un discorso di questo tipo. Se è vero infatti che inizialmente il numero 1 della Casa Bianca era apparso come il cattivo di questa vicenda, è altrettanto vero che oggi si stia quasi preparando a vestire i panni del liberatore, addirittura del paladino.

Perché mentre il suo vice Pence prima di lasciare Seul si irrigidisce in un «l’era della pazienza strategica è finita», Donald l’arancione recita a memoria il discorso del saggio, auspicando una «soluzione pacifica» purché Kim Jong-un e i suoi si comportino bene. In buona sostanza, se dovesse accadere qualcosa, così come sventolato dall’ambasciatore di Pyongyang alle Nazioni Unite Kim In-Ryong che tra le mura del Palazzo di Vetro ha affermato senza mezzi termini che «una guerra nucleare potrebbe scoppiare da un momento all’altro nella penisola coreana», be’, la colpa non sarebbe di Trump. Anzi, al contrario, il presidente statunitense si vedrebbe praticamente costretto ad arginare l’animo bellicoso dell’altro Kim, il dittatore, che proprio poche ore fa faceva sfoggio di muscoli nella oramai tradizionale parata militare dedicata al fondatore della patria, suo nonno Kim Il-sung.

L’etichetta di guerrafondaio, dunque, se la guadagnerebbe, e con tutti gli onori del caso, il leader supremo della Corea del Nord. Quella di patriota costretto a scendere in campo per salvare gli alleati e l’intera regione, invece, spetterebbe a Donald Trump. E nel frattempo della politica interna, dei tanti motivi per cui gli americani hanno scelto di votare proprio lui, non ne parla più nessuno.
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