Gerusalemme capitale, come mettere Israele contro tutti e passare nel torto avendo ragione

di ​Fabio Nicolucci
Mercoledì 6 Dicembre 2017, 09:27
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Il significato di un segno non è universale, bensì frutto del contesto. I politici sanno, di conseguenza, che è il contesto a determinare il significato e dunque le conseguenze delle loro decisioni. Trump, evitando di firmare come fece invece sei mesi fa - la sospensione del Jerusalem Embassy Act, che nel 1995 prevedeva tale spostamento e che da allora è stato sospeso per decreto ogni sei mesi da tutti i presidenti Usa, si dimostra ancora una volta in politica estera ignaro delle leggi che la governano. Ed entra come un elefante in una cristalleria, causando innumerevoli danni proprio agli amici, in primis a Israele. Perché non solo il medioriente non è l'Asia, e l'Iran non è la Corea del Nord, ma soprattutto non vi poteva essere per lo stesso Israele un momento peggiore.

Israele è infatti il principale beneficiario in termini geostrategici del crollo del vecchio ordine regionale, avvenuto negli ultimi 15 anni e sancito dalle cosiddette «primavere arabe». Eventi che mostrano da una parte la fragilità dello Stato arabo, e dall'altra la solidità di quello israeliano. Tempi nei quali la fragilità dello Stato arabo è tale da determinare la nascita dell'Isis, mentre Israele si afferma come start-up nation, ha un'economia in crescita e tutto sommato offre sia un modello di democrazia localmente ineguagliato sia resilienza alle pur esistenti tensioni interne. 

Riaccendere oggi in questo modo un faro su Gerusalemme significa però subito inevitabilmente ricordare l'assenza di un accordo di pace con i palestinesi, oltre che la perduta sovranità della parte est ai giordani. E mancando ora una soluzione politica praticabile di questo conflitto, sposta tale questione dal campo politico al campo religioso. Islamizzando la questione, dato che si tratta anche del terzo luogo più sacro dell'Islam. E come dovrebbero aver dimostrato gli eventi della rivolta di luglio sulla Spianata delle Moschee, quando un semplice metal detector fu sentito come personale intrusione da milioni di mussulmani, si tratta forse dell'unica modalità che costringe tutti i governi arabi a stare uniti tutti insieme contro Israele.

Islamizzare il conflitto israelo-palestinese lo tramuta subito in conflitto arabo-israeliano. Ciò divide gli occidentali, come dimostra la tattica telefonata di Macron e i genuini tormenti tedeschi. E compatta i mussulmani. Ed ecco che come d'incanto la Turchia deve minacciare la rottura di rapporti diplomatici appena faticosamente ristabiliti, l'Arabia Saudita di Bin Salman fare precipitosamente marcia indietro nella costruzione della sua entente cordiale con Israele, la Giordania minacciare di aggravare i già tesi rapporti diplomatici, l'Egitto smettere di fare pressioni su Hamas a Gaza. E ciò permette alla Russia di porsi sempre più al centro come unico mediatore, capace di parlare con tutti, perché pragmaticamente si sfila da guerre esistenziali e negozia con tutti, seppur spesso con le armi.

Quanto al merito della promessa, Gerusalemme è capitale d'Israele de facto da molto tempo. Oltre che capitale spirituale del popolo ebraico da 3000 anni, come scritto nella Bibbia e in innumerevoli testi poetici o musicali, religiosi e laici. Testimonianze di una presenza ebraica in loco ininterrotta fino ad oggi, nonostante la distruzione del Secondo Tempio per mano di Roma nel 70 d.c. Ancora nel 1844 gli ebrei erano la comunità più numerosa a Gerusalemme, con quasi la metà dei suoi circa 15mila abitanti. Presenza ininterrotta che pesa e rimane, nonostante il furbesco tentativo di rimozione tentato ultimamente dall'Unesco. Ed è sempre sano oltre che giusto riconoscere e far emergere lo stato dei fatti.

Ma una decisione giusta in astratto può rivelarsi un errore se presa nel momento o con modalità sbagliate. Anche qui, il valore del segno lo fa più che altro il contesto. Il momento è sbagliato. Ma anche le modalità non sono quelle utili. Perché un conto è riconoscere Gerusalemme come capitale sic et simpliciter, non smentendo le affermazioni dei più falchi di un governo di falchi come quello Netanyahu, che ciò implicherebbe «riconoscere che anche le colonie non sono un problema». Un altro, ed anzi il suo contrario, sarebbe riconoscere la centralità di Gerusalemme per Israele anche come capitale ufficiale, se però il suo approccio diventa negoziale. A cominciare dal riconoscere fattivamente e magari formalmente che i Palestinesi hanno diritto ad uno Stato e ad una capitale, che i territori della Cisgiordania sono abitati in stragrande maggioranza da palestinesi ancora senza rappresentanza statuale e che l'accordo sul nucleare con il nemico Iran è un punto di partenza e non un ostacolo da rimuovere.

Tra queste due opposte letture Trump si atteggia oggi a Ponzio Pilato, e come è noto ciò è una scelta. Resta da vedere cosa farà l'Europa e soprattutto l'Italia, se deciderà di contare e pesare. Magari rifuggendo da burocratiche e inutili litanie su scenari defunti come il processo di pace di Oslo, e proponendo di considerare lo spostamento dell'ambasciata a Gerusalemme come riconoscimento di un dato di realtà storica e politica, specificando però che in attesa della pace per il momento sarà nella parte Ovest della città che è israeliana sin dalla nascita dello Stato nel 1948. Ma al contempo chiedendo in cambio lo stesso realismo politico al governo di Netanyahu con palestinesi ed iraniani. Se bisogna trattare pragmaticamente, a tappeto corrisponda moneta. E se bisogna abbandonare le ideologie, che lo facciano tutti. Con le garanzie internazionali del caso.
 
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