Uno Bianca, 12 ore di libertà a uno dei killer. I parenti delle vittime: «I giudici hanno figli?»

Uno Bianca, 12 ore di libertà a uno dei killer. I parenti delle vittime: «I giudici hanno figli?»
Sabato 25 Febbraio 2017, 09:02 - Ultimo agg. 09:16
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Dodici ore di libertà dopo 23 anni di carcere fanno infuriare i parenti delle vittime della Banda della Uno bianca. Ad usufruire per la prima volta di un permesso premio è stato Alberto Savi, 52 anni, il minore dei tre fratelli all’ergastolo per aver fatto parte del gruppo criminale che tra il 1987 e il 1994 uccise 24 persone e ne ferì 103, a Bologna, in Romagna e nelle Marche. Da 17 anni è detenuto a Padova e il tribunale di Sorveglianza di Venezia ha dato l’ok alla richiesta, di cui Savi, ex poliziotto come il fratello Roberto, ha già beneficiato trovando ospitalità in una comunità protetta. Il percorso lavorativo avviato in carcere e le relazioni degli operatori, che attestano un percorso di pentimento iniziato da tempo, hanno pesato nella decisione del tribunale.

«I nostri morti non hanno permessi premio. Io non credo che si siano pentiti e mi auguro che dopo questo permesso la cosa finisca lì», ha tagliato corto Rosanna Zecchi, presidente dell’associazione dei familiari delle vittime, vedova di Primo, ucciso da Roberto e Fabio Savi il 6 ottobre 1990 perché stava annotando la loro targa dopo una rapina. Piena di rabbia e tristezza è anche Anna Maria Stefanini, mamma di Otello, carabiniere ucciso dai killer insieme ai colleghi Mauro Mitilini e Andrea Moneta il 4 gennaio 1991 nella Strage del Pilastro a Bologna. «Mi auguro - ha detto - che il giudice di sorveglianza abbia figli e capisca cosa hanno fatto queste persone alle famiglie che avevano dei figli: glieli hanno tolti, il mio aveva 22 anni e mi rimane solo una tomba dove portare i fiori e andare a piangere, e non ho più lacrime da piangere». Non meritano, per lei, «nessun beneficio, nessun diritto: devono gettare la chiave. Hanno tolto la vita alle persone e la loro la devono passare in carcere fino alla fine. Che muoiano là dentro. In Italia la legge è una vergogna». 

Ma i tempi per i benefici stanno maturando. L’altro ergastolano della banda, Marino Occhipinti, è in semilibertà dal 2012. Alberto, il primo dei Savi ad uscire seppur per mezza giornata, da tempo si dice pentito: 11 anni fa inviò una lettera, per tramite della curia di Bologna, proprio alla mamma di Stefanini, invocando perdono. Richiesta rispedita al mittente anche in seguito, nel 2010, così come oggi: «Sono cristiana, ma non li perdonerò mai», ha detto. Negli scorsi mesi Savi ha scritto con il medesimo intento anche a monsignor Matteo Zuppi, da poco più di un anno arcivescovo di Bologna. Zuppi, a margine di un convegno, non ha voluto rispondere a domande sull’argomento. «Non credo proprio che il vescovo abbia il potere di influenzare la giustizia», ha detto Zecchi. Secondo il difensore di Savi, l’avvocato Annamaria Marin, è «un piccolo pezzo di un mosaico». Il percorso di «revisione critica» del suo assistito è cominciato 17 anni fa e di questo hanno tenuto conto i giudici. In questo percorso ci sono «la sua condotta, il riconoscimento delle proprie responsabilità e il rispetto per le vittime: è stata fatta una valutazione di lunghissimo periodo». Il legale ha poi voluto sottolineare la riservatezza che ha circondato il beneficio. Durante le 12 ore Savi è stato in una struttura accompagnato solo dai volontari e non ha potuto incontrare i propri familiari: «Un particolare tipo di permesso voluto nel rispetto comprensibile del dolore, evitando qualsiasi clamore e visibilità».
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