Se la rabbia diventa
il primo partito

di Bruno Vespa
Sabato 12 Agosto 2017, 08:01
3 Minuti di Lettura
«La rabbia non è solo fascista», disse Alessandro Di Battista nel 2015 difendendo il disagio in una periferia romana che aveva suscitato le proteste di Casapound. Aveva ragione. È il successo perdurante – tra alti e bassi – del Movimento 5 Stelle sta nell’aver saputo incanalare quella rabbia in un filone ideologicamente indecifrabile. Basti ricordare la tolleranza sull’«abusivismo di necessità» accennata l’altro giorno da Giancarlo Cancelleri, candidato del partito a governatore della Sicilia. Roba da sindaci meridionali degli anni ‘60/70. È difficile che alle prossime elezioni politiche gli elettori saranno ispirati ancora dagli schieramenti tradizionali. Si prenda il ministro dell’Interno, Marco Minniti.

Lo conobbi negli anni ’90 quando era uno dei consiglieri più intelligenti di Massimo D’Alema. Figlio di un generale dell’Esercito, era stato un comunista a tutto tondo, segretario del Pci nella sua Reggio Calabria e poi nella regione prima degli incarichi nazionali. Ha seguito tutte le declinazioni del partito, fino al Pd. La sua politica dell’immigrazione è di sinistra? No. Di destra? Nemmeno. È una politica di buonsenso. Il 28 giugno Minniti era su un volo di Stato per Washington quando ha saputo che tredicimila immigrati erano diretti in Italia su 27 navi.

Ha annullato gli impegni americani, ha invertito la rotta, è rientrato in Italia e ha dato la sterzata che ha dimezzato in luglio e nei primi dieci giorni di agosto gli arrivi dalla Libia. Da politico fine, è andato in Vaticano a spiegare che la misericordia deve essere compatibile con l’ordine pubblico e ha ottenuto che il nuovo presidente della Cei facesse altrettanto. Roberto Saviano e altri della sinistra-sinistra strillano come aquile, ma Minniti (sostenuto da Mattarella e Gentiloni) va avanti per la sua strada, l’unica percorribile. Cambiamo fronte. Silvio Berlusconi sta vivendo la sua ennesima giovinezza personale e politica. Dimagrito, disteso, trattato con rispetto da tutti, anche dai giornali che lo hanno appeso per vent’anni alla forca.

Che cosa vuole fare il Cavaliere? La rivoluzione, dice sorridendo. Vuole un’aliquota ragionevole di «tassa piatta» uguale per tutti (provvedimento di «destra»), aumentando fortemente la fascia esente (provvedimento di «sinistra»). È molto impressionato dal disagio di milioni di persone. Se il suo partito andrà al governo, vuole perciò portare il minimo della pensione a mille euro (come fece nel 2001 con il minimo a un milione di lire) e studiare un reddito minimo garantito che salvi tanta gente dalla miseria senza scoraggiarne la ricerca di un lavoro. Provvedimenti, questi, di «sinistra» adottati – se ci riuscisse – con privatizzazioni e tagli alla spesa pubblica che sarebbero invece di «destra». In Inghilterra non ci sarebbe stato Blair se non ci fosse stata la Thatcher. Negli Stati Uniti non ci sarebbe stato Clinton senza Reagan. E in Italia Renzi senza Berlusconi.

E se andiamo un po’ più indietro, gli stessi elettori centristi due volte hanno fatto vincere Prodi e due Berlusconi sulla base di considerazioni pratiche e non ideologiche.
Rispetto a quei tempi, le parole Destra e Sinistra hanno perso ulteriormente di significato. L’ha capito benissimo Beppe Grillo che raccoglie rabbia unisex. Se i partiti tradizionali vogliono batterlo, si ispirino ad Abramo Lincoln, che non era certo un conservatore: «Non si rafforzano i deboli indebolendo i forti. Non si aiutano i salariati schiacciando i datori di lavoro. Non si promuove la fratellanza fomentando l’odio di classe. Non si aiutano i poveri distruggendo i ricchi». Diceva Margaret Thatcher che se il buon Samaritano non avesse avuto un po’ di soldi, non avrebbe combinato niente.
© RIPRODUZIONE RISERVATA